REFERENDUM SUL LAVORO/ Le ragioni per bocciarli non andando a votare

Categoria: Italia

Dei cinque referendum dell'8-9 giugno ben quattro riguardano il lavoro. E sembra meglio bocciarli non andando a votare

Massimo Ferlini 6 Giugno 2025 ilsussidiario.net lettura 4’

Seconda domenica di giugno e appuntamento elettorale. Si vota per il secondo turno delle amministrative in molti comuni, ma soprattutto è il weekend della sfida referendaria.

La chiamata alle urne riguarda 5 quesiti. Quattro sui temi del lavoro per cui ha raccolto le firme la Cgil e uno sulla cittadinanza per i giovani figli di coppie di immigrati nati in Italia ma con nazionalità di origine legata alla famiglia.

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Quest’ultimo referendum si propone di ridurre il periodo dopo il quale è possibile fare domanda per il riconoscimento di italiano da 10 a 5 anni. Vi è un largo consenso intorno a questa proposta e il silenzio, con un po’ di vergogna, di quanti ritengono che si possa proseguire con norme che penalizzano giovani che hanno più dimestichezza con le nostre regole di quelle del Paese a cui dovrebbero fare burocraticamente riferimento.

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Molto più acceso il dibattito sui quattro quesiti che riguardano il lavoro. Le proposte avanzate dalla Cgil riguardano due temi riferibili in senso lato al Jobs Act. Una relativa ai licenziamenti relativi a lavoratori assunti con contratti a tutele crescenti e l’altra sull’indennità di licenziamento ingiustificato nelle Pmi. Terzo tema riguarda i contratti a termine e punta a renderli più difficili estendendo l’obbligo di causale. Infine, l’ultimo quesito estende la responsabilità del committente nel caso di incidenti sul lavoro rispetto a tutte le imprese coinvolte.

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La campagna di propaganda dice che sono referendum contro il Jobs Act, ma in realtà questa è la prima di tante mistificazioni che reggono questa iniziativa. I contratti a tutele crescenti sono stati limitati dagli interventi della Corte costituzionale e l’eventuale prevalere del Sì restaurerebbe una situazione delle norme Fornero con meno tutela economica e meno categorie di lavoratori (i dipendenti di partiti e sindacati!) tutelati.

L’estensione alle Pmi di oneri che nemmeno il vecchio Statuto dei lavoratori prevedeva sarebbe un danno alla crescita di molte imprese e si risolverebbe in un aumento dei contenziosi. Interessante per gli avvocati del lavoro, meno per imprese e lavoratori.

L’accusa di estensione dei contratti a termine riguarda una misura introdotta dal Governo giallo-verde ed è in controtendenza con la realtà. I contratti a termine stanno diminuendo da soli soprattutto per il mismatching di competenze esistente sul nostro mercato del lavoro.

E, infine, l’estensione di responsabilità a tutti i committenti di lavori crea una situazione ingestibile coinvolgendo piccole imprese che non hanno strutture di controllo come le grandi che sono in grado di gestire i vari passaggi. Sarebbero più difficili i controlli e servirebbe subito un intervento legislativo.

Queste le ragioni di merito per dire comunque No a quanto proposto. Ma le ragioni principali stanno nella mistificazione con cui vengono presentate le motivazioni che stanno alla base della volontà referendaria. Secondo chi appoggia le richieste della Cgil, i referendum sarebbero utili per colpire il lavoro precario da cui derivano anche i bassi salari italiani. Insomma, sarebbe l’intervento risolutivo per correggere le disfunzioni del nostro mercato del lavoro. Essendo coinvolte le stesse manine dell’abolizione della povertà adesso, votando anche contro una misura voluta da loro, si può abolire il precariato.

Da quando sul balcone di palazzo Chigi è stata annunciata la fine della povertà Istat ne documenta una costante crescita. Pare lo stesso stia capitando alla Cgil. Lancia la lotta contro precari e contratti a termine e questi diminuiscono da soli senza aspettare i risultati dei referendum. E ciò che funziona di più sul mercato del lavoro è grazie al Jobs Act e non contro.

Si sa che la realtà è testarda e non è manipolabile con l’ideologia. Come ben illustrato ancora pochi giorni fa dal Governatore della Banca d’Italia, l’occupazione continua a crescere, ma ciò avviene con una diminuzione del prodotto. Ossia la produttività continua a diminuire. L’occupazione è trainata dalla crescita dei contratti a tempo indeterminato, le ore lavorate sono in aumento, il part-time involontario è in diminuzione. Il precariato è presente in maniera massiccia nella Pa e non è problema di contratti ma di concorsi e spesa pubblica.

Non va tutto bene. Il precariato giovanile è dovuto all’abuso di tirocini e stages che non sono contratti di lavoro, ma un modo per sottopagare l’avvio al lavoro di troppi giovani. Il part.time involontario nasconde troppo spesso un contratto di lavoro in grigio con una sola parte del tempo di lavoro coperta da contratto regolare. La questione dei salari è poi ormai tema all’ordine del giorno perché oltre a essere fonte di diseguaglianze crescenti diventa limite alla crescita della domanda incidendo sulla crescita economica necessaria per l’equilibrio macroeconomico.

Vi è una situazione del mercato del lavoro per cui le aziende sono impegnate a trattenere presso di sé i lavoratori con le competenze necessarie per affrontare la sfida della digitalizzazione e combattere il mismatching di competenze. I giovani lavoratori premono poi per una maggiore partecipazione alle scelte sia per la propria crescita professionale che per la condivisione del contributo sociale che possono dare con il loro impegno nell’impresa.

Insomma, referendum che esprimono una visione del lavoro antagonistica e una realtà del lavoro che chiede partecipazione, crescita dei salari medi e produttività. Fare vincere il futuro del lavoro è quindi respingere le proposte che guardano al passato.

P.S.: Non voglio però esimermi dal dire cosa farò. Io non parteciperò al voto. È scelta che non corrisponde al mio solito comportamento che ha sempre avuto un forte rispetto per il diritto di voto. Nel caso del referendum, essendoci il quorum, anche il non voto è un voto come ampiamente spiegato da autorevoli costituzionalisti.

In più in questo caso i proponenti del referendum, capito che il merito dei quesiti non era convincente, hanno trasformato il dato della partecipazione come elemento di successo indipendentemente dal voto Sì o No. Allora l’unico modo per dire chiaramente che è una cultura del lavoro sbagliata quella di chi ha pensato alla campagna referendaria è non partecipare al voto. Così è chiaro che si è per tutelare il lavoro del futuro.