Occidentali prigionieriLa chiusura mentale impenetrabile di quelli che ripetono le idiozie della propaganda russa

Categoria: Italia

Tanti illustrissimi intellettuali parlano con le parole di Putin, Lavrov e gli altri criminali di Mosca, attribuendo alle vittime la colpa della guerra.

2.6.2025 Francesco Cundari, linkiesta.it lettura 4’

Servirebbero dei programmi di sostegno per tutti lo

L’invasione russa dell’Ucraina, mirata a impedire l’avvicinamento del Paese all’Unione europea (almeno quanto il suo eventuale ingresso nella Nato), e la guerra ibrida condotta dal regime di Vladimir Putin contro l’Europa, cominciata diversi anni prima, hanno ricordato a molti il saggio di Milan Kundera, Un occidente prigioniero, dando nuova attualità alle riflessioni dello scrittore dedicate alla triste sorte dei Paesi dell’Europa centrale. Nazioni che si erano sempre considerate occidentali – perché lo erano: storicamente e culturalmente – ma che all’indomani della Seconda guerra mondiale si erano risvegliate d’un tratto «constatando che si trovavano a Est». Non per niente, osservava Kundera, è qui, non certo in Bulgaria, e tanto meno a Mosca, che sono scoppiate le rivolte più accese, con una tale partecipazione popolare da richiedere l’intervento dei carri armati sovietici, senza i quali quei regimi sarebbero crollati nel giro di pochi giorni. È la storia della ribellione ungherese del 1956, della primavera di Praga del 1968, delle rivolte polacche del 1956, 1968, 1970 (prima ancora delle battaglie di Solidarność negli anni Ottanta).

La rimozione di questa tragedia, il modo in cui i dissidenti di quei Paesi sono stati calunniati o nella migliore delle ipotesi ignorati da una larga parte della cultura di sinistra, anche quando formalmente il Partito comunista esprimeva la propria riprovazione della repressione sovietica, è stata a lungo uno degli argomenti più forti della polemica condotta non solo da destra, ma anche dai socialisti, contro la famigerata egemonia comunista.

Se mi fosse capitato di leggere queste ultime righe prima del febbraio 2022, prima cioè di assistere all’invasione russa dell’Ucraina e soprattutto al dibattito che ne è seguito in Italia, lo ammetto, le avrei considerate, nella migliore delle ipotesi, come riflessioni di interesse storico, come curiosità accademiche di scarsa o nulla rilevanza per l’attualità, e nella peggiore come una forzatura polemica e una strumentalizzazione politica, tesa a rilanciare un’anacronistica caricatura della sinistra di oggi. Considero un’enorme e immeritata fortuna che non mi sia capitato nulla di simile, perché oggi certamente me ne vergognerei.

Lo spettacolo offerto dal dibattito pubblico italiano sulla guerra in Ucraina dimostra infatti che non è esistito solo un Occidente prigioniero dei carri armati sovietici, come Kundera definiva quei Paesi dell’Europa centrale, a cominciare dalla sua Cecoslovacchia, ma che esistono ancora oggi, a più di trent’anni dalla fine del comunismo, milioni di occidentali prigionieri delle stesse gabbie mentali, degli stessi riflessi condizionati, delle stesse camere d’eco (volendo considerare solo quelli in buona fede) che caratterizzavano allora tanta parte dell’opinione pubblica (una parte molto più ampia dei semplici elettori del Pci). Milioni di persone oggi vittime, mi si perdoni il termine, di una vera e propria dissonanza cognitiva.

L’istinto che ci porta a giustificare ex post le nostre scelte passate, contro tutte le prove contrarie, pur di allontanare il senso di colpa o di vergogna che deriverebbe dal constatare la portata dei nostri errori, evidentemente, è più forte di ogni logica e di qualsiasi competenza, si fa beffe dell’intelligenza e della cultura, come si vede dal modo in cui tanti illustrissimi intellettuali in questi anni si sono ridotti a ripetere le più degradanti idiozie della propaganda putiniana, attribuendo alle vittime e a chi cercava di aiutarle la responsabilità della guerra, per la loro ostinazione nel volersi difendere.

È una forma di chiusura mentale praticamente impenetrabile. Ma se c’è una speranza, non può venire che dalla testimonianza diretta di chi ha sperimentato sulla propria pelle la messa in atto di quelle teorie. Per liberare i tanti occidentali prigionieri della propaganda russa, ironia della sorte, possiamo contare solo su quegli stessi europei dell’Est (e del Centro) le cui sofferenze abbiamo negato, calunniato o ignorato per mezzo secolo, sugli unici europei che le prigioni russe, quelle vere, le hanno viste con i propri occhi.

Servirebbe un programma di sostegno per intellettuali occidentali, e specialmente italiani, chiamati a riunirsi in circolo assieme a tanti colleghi del Centro e dell’Est Europa, che ricordino cosa capitava a casa loro mentre da noi si sfilava contro l’imperialismo americano, si facevano grandiose e sacrosante battaglie per la libertà di stampa e contro la censura democristiana nel cinema, si organizzavano ammirevoli iniziative di solidarietà con i dissidenti cileni, greci o argentini. Incontri che andrebbero lasciati concludere dagli ucraini sopravvissuti alle camere di tortura nei territori occupati, dai dissidenti bielorussi sfuggiti alla polizia del regime, dai georgiani che hanno dovuto fronteggiare l’aggressione russa del 2008. E sentire dalla loro viva voce non tanto che cosa significhi la violenza dell’oppressione, esperienza che in fondo anche noi italiani abbiamo conosciuto, in un passato non così lontano, ma la violenza psicologica della negazione e persino del capovolgimento di quella stessa esperienza, da parte del cosiddetto mondo libero, che dopo averli abbandonati si è persino unito alle calunnie dei loro oppressori, come è accaduto a tanti dissidenti dell’Est sin dai tempi di Stalin.

Un comportamento che forse spiega anche, almeno in parte, perché tanti Paesi dell’Est minaccino oggi di ritornare, come è già accaduto in Ungheria, e più recentemente in Slovacchia, e come stava per accadere e forse potrebbe accadere ancora in Romania, nell’orbita di Mosca, sebbene all’insegna di valori e ideali diametralmente opposti a quelli proclamati a suo tempo dal Paese guida del comunismo, e così ingenuamente creduti e ripetuti, sempre nella migliore delle ipotesi, da così tanti intellettuali occidentali.

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