L'intervista al sociologo Ricolfi: “L’élite woke è finita ma l’Europa si trastulla ancora
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in quel suo follemente corretto. La sinistra non parla più alla classe media perché costa troppo”
Aldo Torchiaro 8.11. 2024 alle 12:35 ilriformista.it lettura4’
Luca Ricolfi, sociologo, oggi in libreria con Il follemente corretto. L’inclusione che esclude e l’ascesa della nuova élite. Un atto di accusa contro la cultura woke e chi continua a promuoverla, uscito con la Nave di Teseo.
Il risultato inatteso di Trump di quale America ci parla?
«Inatteso solo per alcuni, direi. Alcuni sondaggi (snobbati dai grandi media) davano Trump in vantaggio, la tendenza dei sondaggi a sottostimare il consenso a Trump era nota, il Fatto Quotidiano nei giorni prima del voto è arrivato a pubblicare due pagine con titolo “I 24 motivi per cui Trump potrebbe vincere”. Per quanto mi riguarda, il libro che ho appena pubblicato con la Nave di Teseo (Il follemente corretto) illustra in dettaglio l’handicap elettorale che pesa su chiunque, come Kamal Harris, non prenda le distanze dalle follie del politicamente corretto. Riguardo all’interrogativo su quale America sia quella che ha scelto Trump, direi che è l’America che hanno voluto, e contribuito a imporre, i Democratici negli ultimi 10-12 anni, ossia da quando è esplosa la cultura woke».
Che tipo di America?
«Un’America in cui l’élite benpensante, che parla la Neolingua politicamente corretta e si interessa più delle minoranze sessuali che di quelle economiche, guarda dall’alto in basso i ceti popolari, dipinti come rozzi e “deplorables” (copyright Hillary Clinton)».
La vittoria di Trump suona la sveglia per l’Europa: l’ultima chiamata contro l’eterna irrilevanza
Ha vinto Trump, il trumpismo, ma hanno vinto anche i repubblicani?
«Non mi sembra che, dentro il Partito repubblicano, vi sia un’opposizione a Trump. Trump e il suo partito sono ormai una cosa sola, quindi sì, hanno vinto anche i Repubblicani, non solo Trump. Semmai, quel che si potrebbe dire è che si sono perse le tracce dei vecchi partiti repubblicani, quelli di Reagan e Bush padre, che erano conservatori ma non populisti».
Quali Stati Uniti saranno quelli dei prossimi quattro anni?
«Non ne ho la minima idea, perché non so se Trump si sentirà abbastanza forte da puntare su una ricomposizione delle fratture di questi anni, o proverà ad ampliarle ancora, nella speranza (secondo me mal riposta) di allargare ulteriormente il suo seguito. Quello su cui non ho molti dubbi è che la pacchia woke è finita, come del resto si poteva capire già da un bel po’, osservando fenomeni come la rivolta di una parte del femminismo contro le rivendicazioni LGBT+, o le sempre più numerose chiusure degli staff DEI (Diversity, Equity, Inclusion) in tante grandi aziende americane. La cosa strana è che questi segnali, pur palesi, non siano mai stati seriamente presi in considerazione dall’establishment e dai grandi media».
La doccia fredda servirà a svegliare l’Europa dormiente?
«Penso di no, l’Europa è un gigante addormentato e auto-drogato, che a causa di tutti i barbiturici ideologici che ha assunto negli ultimi decenni non è in condizione di uscire pienamente e rapidamente dal letargo, come sarebbe assolutamente necessario. Può anche darsi che Trump, con la minaccia di ritirare lo scudo militare anti-Russia, riesca a svegliare il gigante, ma poi ci vorranno anni e anni di disintossicazione prima che il Vecchio Continente riacquisti lucidità, forza e rispetto di sé».
I democratici americani devono reinventarsi. E forse non solo quelli americani, per tornare a vincere…
«Sì, ricominciare daccapo è assolutamente necessario. E la condizione minima, necessaria ma non sufficiente per vincere le elezioni, è il ripudio totale, senza se e senza ma, del follemente corretto, che è la zavorra che ha appesantito tanti partiti progressisti in questi anni. Vincere contro la destra è difficilissimo ovunque, ma farlo con l’handicap del follemente corretto è praticamente impossibile. Bisogna assolutamente liberarsene».
Ma che cosa vuol dire, in pratica?
«Vuol dire separare il grano dal loglio nel perseguimento della correttezza politica. C’è anche del buono nel politicamente corretto, ma troppe volte il buono esonda e diventa cattivo. Un conto è invitare a dire colf anziché donna di servizio, un altro conto è punire chi non si attiene ai dettami della Neolingua, licenziare chi ha idee ritenute sbagliate, indottrinare i bambini nelle scuole, far gareggiare i maschi biologici nelle competizioni femminili, penalizzare chi è bianco nei concorsi universitari, incoraggiare i cambi di genere precoci, inneggiare acriticamente alla GPA (gestazione per altri, o utero in affitto), chiudere il conto corrente a chi ha idee controverse (è successo anche questo, negli Stati Uniti). Più in generale, il problema dei progressisti è quello di riappropriarsi di tante bandiere abbandonate, o lasciate alla destra: come la libertà di espressione e la lotta contro la censura; la difesa degli spazi e delle prerogative delle donne; la promozione del merito a prescindere dai caratteri ascritti, come il colore della pelle e il sesso. È il tema del mio libro (La mutazione. Come le idee di sinistra sono migrate a destra), uscito due anni fa per Rizzoli».
La sinistra woke mostra i suoi limiti. Perché non riesce più a parlare di cose concrete alla classe media?
«Domanda difficile, ma azzardo una risposta: perché costa troppo. Il problema centrale del ceto medio è la riduzione delle tasse, ma varare sgravi significativi comporta un prezzo enorme in termini di riduzione dei servizi sociali. Meglio, allora, sollecitare l’autostima di chi sta già abbastanza bene, offrendogli misure che, comparativamente, hanno un’incidenza macroeconomica modestissima: diritti delle minoranze sessuali, sostegno morale e materiale ai migranti, politiche di sensibilizzazione in materia di correttezza politica. Aiutare i ceti medi a sentirsi buoni e giusti, insomma. O, come preferisco dire, a coltivare il proprio narcisismo etico».
Aldo Torchiaro
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