Non disperdete il buonsenso del Cav.
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Oltre il terremoto. Perché la grande sfida di Berlusconi e di Parisi è uscire dalla convenzione di metà settembre come alternativa radicale al frontismo caciarone del peggiore populismo mediatico e del confusionismo salviniano
di Giuliano Ferrara | 30 Agosto 2016 ore 06:18 Foglio
Sono in parecchi a non crederci, a considerarlo una semplice variante dell’interesse aziendale e familiare, ma il buonsenso di Berlusconi esiste. Salvini e aggregati lo hanno deluso e irritato, volevano prendergli la mano e pensionarlo di malagrazia. Sono tipi rozzi, ma non hanno con sé nemmeno tutta la base, per non parlare dei leghisti di governo nelle città e nella regione Lombardia. Anche il vincitore della lotteria ligure, il neofita Toti, si è mostrato pronto all’idea di mettersi in proprio, ma su basi che non convincono tutti, per dirlo con understatement, e certamente non il suo mentore Berlusconi. Ma la scelta di Stefano Parisi come federatore possibile di una coalizione liberale e popolare delle idee non nasce dal risentimento quanto dalla preoccupazione che tutto finisca in una versione pasticciata e provinciale del lepenismo e del trumpismo. E questo è puro buonsenso. Un uomo intelligente come Brunetta, spesso ma non sempre tradito dal carattere e dall’ego, dovrebbe capirlo. La sua competizione, se voglia essere interessante e politicamente produttiva, è con Parisi, generazione di socialisti con il gusto e la competenza dello stato e dell’alta amministrazione, qualcosa di compatibile con il miglior Brunetta, non con i sub-attacchini di Salvini. Gli stati generali di una destra antisistema sono mera propaganda, e non mettono capo alla agognata cacciata di Renzi, casomai al suo rafforzamento o alla sua demolizione – Dio ne guardi – in favore del partito delle manette e di qualche pupazzo della Casaleggio Associati.
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Il problema ora non è domandarsi se il Cav. reggerà e sarà stabile nelle sue scelte oppure sarà travolto dai fantasmi di partito e di cartello elettorale da lui stesso evocati in passato, esercitazione più o meno futile; bisogna invece capire se l’iniziativa di Parisi avrà solo glamour mediatico o risulterà convincente per la sua qualità e per le forze effettive che saprà rimettere in moto. Le riunioni alla Leopolda che furono alla base dell’ascesa di Renzi e della ricostruzione di un Pd avvilito dalla mediocrità della sua classe dirigente avevano questa caratteristica: erano coraggiose e politicamente e culturalmente trasversali, facevano notizia per la loro imprevedibilità. Sull’altro lato, simmetricamente, Parisi dovrebbe riuscire a trasformare un’assemblea gravata dal sospetto della reviviscenza tecnocratica e della melina in una seria ipoteca politica, nutrita di un programma non inventato a tavolino, sul futuro del paese.
Renzi stupì tutti quando disse che non voleva Berlusconi in galera, ma all’opposizione. E poi ebbe l’avvedutezza di stipulare con lui, nel suo momento peggiore e di maggior debolezza, un patto che guadagnò al segretario del Pd l’ostilità di mediocri e mozzorecchi di ogni latitudine, dentro e fuori il suo partito. Parisi e i suoi della convenzione devono probabilmente escogitare qualcosa di simile a parti rovesciate: una coalizione liberale e popolare vuole sostituire la sinistra democratica al governo del paese, non abbattere alla cieca il suo governo e i suoi simboli alleandosi con la peggiore demagogia nazionalista, antieuropea, etnicista e una punta razzista. Milano, il berlusconismo del buonsenso e lo stesso Parisi devono uscire dalla convenzione della metà di settembre come una alternativa radicale al frontismo caciarone tributario del peggiore populismo mediatico e del confusionismo salviniano. E Parisi, sul piano personale che è decisivo per ogni leadership, deve impedire che passi il suo ridimensionamento a special advisor del Cavaliere. Deve candidarsi per l’alternativa, con un programma serio e idee nuove.
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