UNA CONDANNA PREVENTIVA. Sbatti il mostro in prima pagina. Tutti gli orrori del circo mediatico dietro il tentato suicidio di Giovanna Boda
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Che cosa ha spinto una stimata professionista e dirigente di prima fascia del Miur, a compiere un gesto simile e fino a che punto la presunzione di innocenza rappresenta ancora un valore condiviso e praticato oltre che un principio costituzionale
ANNALISA CHIRICO 15.4. 2021 ilfoglio.it lettura4’
Distesa su un letto d’ospedale, Giovanna Boda lotta tra la vita e la morte. Non sappiamo chi vincerà ma sappiamo chi ha perso. Un innocente fino a prova contraria che si toglie la vita perché la pressione mediatica, il sospetto, lo stigma dei giornali che ti bollano come corrotta a indagini ancora in corso sono un fardello troppo pesante.
Quando scriviamo, questa signora di origine piemontese, una quarantasettenne dal corpo minuto, ha già subìto due interventi a schiena e bacino, ed è ancora sotto i ferri per il terzo intervento alle gambe. Non si tratta di essere colpevolisti o innocentisti, c’è un’inchiesta in corso e ci auguriamo che la giustizia dia risposte in tempi certi, è doveroso però domandarsi se e fino a che punto la presunzione di innocenza rappresenti ancora un valore condiviso e praticato oltre che un principio scolpito nella Costituzione.
Mercoledì pomeriggio, intorno alle 16.30, Giovanna Boda si è lanciata nel cortile interno del palazzo dove si era recata per incontrare l’avvocato Paola Severino, a pochi passi da piazza del Popolo a Roma. Il salto nel vuoto dalla finestra posta al secondo piano le ha procurato fratture multiple gravissime, i medici del Policlinico Gemelli parlano di una situazione di “grave pericolo”. Nelle ore in cui il pendolo tra la vita e la morte non ha ancora deciso né per l’una né per l’altra, il marito Francesco Testa, procuratore capo di Chieti, accorso a Roma dopo aver appreso la notizia del tentato suicidio, tenta di soffocare la disperazione per apparire forte agli occhi della figlia di quattro anni, la loro bambina.
Che cosa ha spinto la dottoressa Boda, stimata professionista e dirigente di prima fascia del Miur, a compiere il gesto estremo? Martedì, insieme ad altre otto persone, Boda ha ricevuto una visita inaspettata: gli investigatori del Nucleo di Polizia valutaria della Guardia di finanza, su ordine della procura di Roma, hanno perquisito la sua casa romana, l’ufficio di viale Trastevere e una soffitta “nella disponibilità della donna”. Passate al setaccio anche abitazioni e ufficio della sua collaboratrice, Valentina Franco, e di Federico Bianchi di Castelbianco, il presunto corruttore. All’indomani il quotidiano La Verità dà notizia dell’inchiesta riportando ampi stralci del decreto di perquisizione: il titolo in prima pagina è “Corruzione, trema il ministero della scuola”. A pagina 13 campeggia la foto di Giovanna Boda accanto al volto di Lorenzo Fioramonti, l’ex ministro del governo Conte che l’ha promossa al ruolo di capo Dipartimento per la programmazione e la gestione delle risorse umane, finanziarie e strumentali di viale Trastevere. Un incarico oneroso, di fatto Boda è la donna che tiene in mano i cordoni del ministero.
Chi ha parlato con lei nelle ore prima della tragedia racconta di una donna sgomenta, preoccupata per le ricadute sulla famiglia e sulla reputazione personale. Per il circo mediatico Boda è la “moglie di un giudice”, “già collaboratrice della Boschi a Palazzo Chigi”, manco fosse una colpa; tali circostanze corrispondono al vero ma, accostate alla parola “corruzione”, suonano come una condanna preventiva, pesante per una signora all’apparenza forte, forse inerme davanti all’accusa di aver ricevuto utilità e denaro per un valore di quasi 680mila euro da Bianchi di Castelbianco, psicoterapeuta ed editore dell’agenzia Dire. Secondo l’ipotesi accusatoria, l’uomo avrebbe così ottenuto dal Miur due contratti di 39.950 euro ciascuno (appena al di sotto della soglia che, secondo il Codice dei contratti, consente affidamenti diretti entro i 40mila euro). Balza agli occhi la discrepanza tra i presunti benefici indebitamente corrisposti a Boda e il valore delle due commesse assegnate a società riconducibili a Bianchi. Su questo aspetto, e non solo su questo, la procura di Roma dovrà fare chiarezza: non si è mai visto un corruttore che paga dieci per ottenere due.
Boda non deve aver apprezzato neanche l’insistenza mediatica sui suoi precedenti incarichi, quasi a voler mettere in discussione la carriera di una donna laureata in psicologia dello sviluppo e già ricercatrice universitaria, entrata al Miur nel 1999 e promossa dirigente nel giugno 2016. Non deve aver apprezzato i titoli colpevolisti insieme agli stralci delle chat telefoniche con l’ex pm Luca Palamara: nulla di penalmente rilevante ma a chi fa piacere vedere le proprie conversazioni private scoperchiate sui giornali? Impegnata in numerosi progetti sul fronte della formazione e della legalità, insignita di ben due onorificenze su iniziativa del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, Boda è stata apprezzata collaboratrice di diversi ministri, da Maria Elena Boschi a Stefania Giannini, da Valeria Fedeli a Maria Stella Gelmini. Fino al giorno delle accuse infamanti. Boda non ha retto l’urto della vergogna, ha pensato forse che difendersi da un processo per definizione sommario sarebbe stato impossibile. Non aveva nominato ancora un legale, l’avvocato Severino è giunta allo studio quando la tragedia si era consumata da pochi istanti. E’ bastato un soffio.