Mani golpiste. Un libro sul Pool di Milano
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Rileggere Tangentopoli con il codice penale alla mano per scoprire che il colpo di stato ci fu.
di Dario Fertilio | 25 Gennaio 2015 ore 06:18 Foglio
Nei confronti di Mario Chiesa il pm Di Pietro dimentica poi deliberatamente di depositare nei tempi dovuti gli atti. Questo gli consente di prolungare indefinitamente la detenzione
Mettiamo che tra il 17 febbraio del 1992 e il 29 ottobre dell’anno successivo si sia consumato in Italia un colpo di stato, senza che nessuno (o quasi) se ne sia reso conto. Dietro le quinte, nessuno zampino di servizi segreti né complotto di generali; al contrario, alla luce del sole, un rumoroso tintinnare di manette agitate dai giudici di Mani pulite. Mettiamo che Ferdinando Cionti, avvocato di cultura liberale, incaricato dall’allora segretario socialista Bettino Craxi di verificare la legittimità dell’operato del Pool di Milano, sia riuscito, firmando “Il colpo di Stato” (LibertatesLibri, pp, 158, euro 10) a smontare meticolosamente, articolo per articolo, l’ingranaggio giudiziario (con contorno politico e mediatico) su cui si è retta l’inchiesta di Tangentopoli. Concediamo pure che l’autore non abbia saputo né voluto spogliarsi di una antica passione garantista nel redigere il suo atto d’accusa contro i giudici della procura di Milano che determinarono il crollo della Prima Repubblica. Restano comunque i fatti elencati da Cionti, che vengono prima delle interpretazioni e delle tesi politiche: ed è a essi che occorre anzitutto dare udienza.
Con una premessa, che vale anche da conclusione: se colpo di stato a opera dei giudici ci fu, come sostiene Cionti, deve essere possibile inquadrare penalmente l’accaduto. Ed ecco: basta riferirsi agli articoli 287 e 289 del codice penale, là dove stabiliscono rispettivamente: “Chiunque usurpa un potere politico ovvero persiste nell’esercitarlo indebitamente, è punito con la reclusione da sei a quindici anni”; e ancora, “è punito con la reclusione da uno a cinque anni, qualora non si tratti di un più grave delitto, chiunque commette atti violenti diretti ad impedire, in tutto o in parte, anche temporaneamente, al presidente della Repubblica o al governo l’esercizio delle attribuzioni o prerogative conferite dalla legge; alle assemblee legislative, alla Corte costituzionale o alle assemblee regionali l’esercizio delle loro funzioni”.
Ma prima di passare alle radicali conclusioni cui giunge Cionti, basandole sui due articoli appena citati, ecco i passi salienti della sua indagine, in cui viene “smontata” pezzo per pezzo, e articolo per articolo, la macchina giudiziaria messa in moto a suo tempo dai giudici di Mani pulite.
La scintilla dell’inchiesta, cioè l’arresto di Mario Chiesa per la vicenda delle tangenti legate al Pio Albergo Trivulzio, scocca in seguito a una serie di intercettazioni illegali. In pratica Di Pietro, giostrando fra gli articoli 266 del codice di procedura penale, e il 317 e 318 del codice penale, invece di iscrivere nel registro la sola notizia di un reato di diffamazione, vi aggiunge in base a un sospetto non provato quello di corruzione e addirittura di concussione. In pratica “inventa” l’esistenza di un reato per il quale è consentita l’intercettazione telefonica.
Inoltre il conferimento dell’inchiesta a Di Pietro avviene in modo illegittimo: in certo modo è come se il suo autore, per poterne essere titolare, l’avesse assegnata a se stesso. Egli infatti concorda con la polizia giudiziaria una data per l’“operazione Chiesa” in cui lui sia di turno, in modo che il processo gli venga assegnato, evitando il rischio che finisca a un altro sostituto. Ma questo è ancora il meno – benché sia già una violazione del regolamento – perché Di Pietro determina l’assegnazione dello stesso processo a un gip gradito, contro il disposto dell’articolo 25 della Costituzione, che pone il divieto di sottrarre l’imputato al suo giudice naturale. La tecnica messa in atto, in questo caso come nei successivi di Mani pulite, consiste nell’intasare con fascicoli di scarso rilievo l’ufficio del gip competente per turno, ma considerato meno malleabile, facendo in modo che il fascicolo passi in eredità a quello favorevolmente disposto (in quel caso Italo Ghitti).
Nei confronti di Mario Chiesa il pm Di Pietro dimentica poi deliberatamente (come ammetterà lui stesso successivamente in un’intervista) di depositare nei tempi dovuti gli atti previsti per il rito direttissimo. Questo gli consente di prolungare indefinitamente la detenzione, cuocendo Chiesa a fuoco lento: le sue confessioni, per quanto rilevanti ai fini dell’inchiesta, sono il risultato di una procedura illegale che si basa sullo choc indotto dal carcere e dalle manette, con la prospettiva di una macchia indelebile sull’immagine pubblica dell’inquisito.
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Ancora: Di Pietro, dopo aver proceduto per concussione al fine di effettuare le intercettazioni illegali, inventa un altro trucco o “giochino”: applica ai fini della sua inchiesta sulle tangenti la legge che riguarda le rogatorie internazionali per il riciclaggio di denaro sporco proveniente dal traffico di droga o di armi. In questo modo, tra l’altro, scavalca le prerogative del ministro della Difesa, che avrebbe dovuto autorizzarlo, alterando di fatto i rapporti fra magistratura e potere esecutivo.
Viene poi creato dal Pool, attraverso l’invenzione della “dazione ambientale”, un tipo di reato sociale e collettivo di corruzione, secondo il quale il rischio di reiterazione dei reati, dell’inquinamento delle prove e della fuga, è sempre possibile. Come dire che, essendo l’Italia in generale un paese di corrotti, ognuno deve essere comunque trattato come tale. Effetto: viene fatto capire all’indagato che la sua permanenza in carcere può durare all’infinito. Man mano che si avvicinano i termini di scadenza, gli si fanno piovere addosso a intervalli regolari nuovi ordini di custodia cautelare per reati simili a quello originario, con nuove ondate di pubblico discredito e un impatto umano devastante. E’ un metodo quasi infallibile che serve per far abbassare le difese all’inquisito, inducendolo a passare dalla confessione dei propri reati alla delazione riguardo a quelli altrui.
Nel caso di Chiesa, inoltre, il prolungarsi della detenzione assume anche uno scopo politico: far sì che alla fine venga chiamato in causa Craxi, nemico pubblico numero uno del “partito dei giudici” dal tempo del delitto Tobagi, e ancor più da quando il Psi si è schierato a favore della responsabilità civile dei magistrati.
Ed è così, racconta l’autore, che si incomincia a indagare sul conto del leader socialista, il cosiddetto “cinghialone”. Ma, in violazione dell’articolo 335 del codice di procedura penale, lo si fa segretamente, senza iscrivere il suo nome nel modello 21, il registro in cui finiscono le notizie di reato con nominativo conosciuto, e che prevedono un termine di sei mesi per le indagini. Si ricorre invece astutamente al modello 44, riservato ai casi in cui l’identità dell’indagato è ignota: il termine dei sei mesi in questo caso non c’è più e dunque è possibile procedere a tutto campo contro l’odiato Craxi.
Se non che Craxi era un parlamentare. E qui sale il livello politico della sfida: iniziano cioè gli attacchi del Pool all’articolo 68 della Costituzione, quello che allora stabiliva come: “Senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento possa essere sottoposto a procedimento penale”. Non si parlava di condanna, cioè, ma di “procedimento”: perché era chiaro al legislatore, preoccupato di mantenere separati e indipendenti i poteri legislativo ed esecutivo da quello giudiziario, come perseguire un politico ne pregiudicasse irreparabilmente la carriera. Quindi, in attuazione del disposto costituzionale, entro trenta giorni dalla iscrizione nel registro degli indagati il pubblico ministero avrebbe dovuto chiamare il parlamentare Craxi, chiedergli spiegazioni e, se queste non fossero riuscite convincenti, rivolgersi al Parlamento per l’autorizzazione a procedere. Questo non viene fatto, e i pm del Pool continueranno a non farlo in futuro, di fatto violando l’articolo 68 della Costituzione e mettendo la classe politica di fronte al fatto compiuto. Così il Pool creerà i presupposti per la modifica, finché si incaricherà Borrelli di chiederla pubblicamente.
Siamo al nocciolo della questione, e ormai apertamente su un terreno tutto politico: la presa di posizione del “partito dei giudici”, combinata con l’azione dei fiancheggiatori e lo stillicidio delle pubblicazioni su varie riviste e giornali dei verbali riservati, ostacola e infine fa cadere la nomina – proprio in quei momenti all’ordine del giorno – di Bettino Craxi a presidente del Consiglio. Al vertice dello stato, Scalfaro, informato dal Pool, prendeva atto delle indagini in corso su Craxi e ripiegava sul conferimento dell’incarico a Giuliano Amato. Ed è qui dunque, con logica stringente, che Ferdinando Cionti fa discendere la conclusione dalle premesse: un pubblico ministero – afferma – ha effettuato indagini illegittime contro Craxi e se ne è avvalso per intromettersi direttamente nella nomina del presidente del Consiglio. Dunque, l’ha condizionata, esercitando un potere di fatto che scavalca l’esito delle elezioni, il Parlamento, e limita lo stesso potere del presidente della Repubblica nella sua maggiore espressione. Da qui l’attentato contro gli organi costituzionali, secondo l’articolo 289 del codice penale. Un punto di non ritorno, dal momento che si sarebbe dovuto modificare la Carta, e sanare a posteriori il reato commesso, oppure andare incontro a una messa in stato di accusa del Pool. Insomma, da un lato si continuava a disapplicare l’articolo 68, dall’altro si chiedeva pubblicamente, per bocca di Borrelli, la riforma di questa norma.
Il resto è storia nota. L’inchiesta su Tangentopoli procederà trionfalmente senza più ostacoli: si arriverà a indagare 131 parlamentari soltanto a Milano, mentre in tutto saranno 1.069 i politici coinvolti, di cui 205 deputati (un terzo del totale). In un clima simile di caccia giustizialista alle streghe, che l’autore definisce “rivoluzionario”, diventerà impossibile riconoscere l’evidenza: come cioè tutti i partiti fossero coinvolti in una associazione a delinquere basata su tangenti implicite e pressoché automatiche. Sicché non si poteva parlare legittimamente di corruzione né di concussione, rendendo inevitabile la famosa “soluzione politica” auspicata da Craxi, in modo da evitare il crollo dell’intero sistema democratico. Ma il tentativo messo in atto a questo fine dal ministro Giovanni Conso, che si proponeva di depenalizzare il reato di finanziamento ai partiti, sarà immediatamente bloccato dalla durissima reazione di Borrelli e dei suoi collaboratori, addirittura con una minaccia di dimissioni collettive, fino a indurre il presidente Scalfaro a non firmare il decreto. Si procederà invece in un’altra, opposta direzione, giungendo nell’ottobre del 1993 ad abolire l’immunità parlamentare. Sotto la mannaia cadrà intanto gran parte della Dc (non la sinistra, che confluirà poi nel Pds), l’ala migliorista e garantista del Pci, e naturalmente l’intera leadership socialista. Tutti i gruppi dirigenti, insomma, considerati “nemici” dal partito dei giudici. In questo clima, mentre si indagano i 131 parlamentari soltanto a Milano – ripetiamo: in tutto saranno 1.069 i politici coinvolti, ma i deputati appartenevano quasi tutti alla maggioranza – si inquadra il voto quasi unanime per l’abolizione dell’immunità parlamentare. Il Parlamento è in pratica sotto ricatto, anche in considerazione del fatto che l’opposizione, pur di essere risparmiata, è indotta ad allinearsi.
Fu presa del potere prima di fatto e poi ufficiale, insomma, riassume l’autore de “Il colpo di Stato”. E venne realizzata mediante l’esercizio di una decisiva facoltà di intimidazione e di veto; l’impresa di lì a poco sarebbe culminata nel blocco della riforma con la quale avrebbe potuto essere finalmente avviata la separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri. Finché, più tardi da Hammamet, Craxi avrebbe parlato di “una certa mappa con dei confini interni: c’è chi dev’essere protetto, chi deve essere tenuto a bagnomaria, e chi dev’essere distrutto”.
Operazione chirurgica, conclude Ferdinando Cionti, finalizzata al “cambiamento” dello stato. Un putsch, precisa, di tipo “bonapartista”, cioè basato sulla legalizzazione a posteriori dell’evento rivoluzionario. Come Napoleone nel famoso 18 brumaio del 1799 bloccò il Parlamento, e poi convocando i parlamentari a lui fedeli ottenne la ratifica dei nuovi poteri a lui attribuiti, così la magistratura nel ’93 indusse i parlamentari consenzienti a spingere per la riforma, intimidendo e paralizzando gli altri.
Che poi ne sia risultato un potere “oligarchico” della magistratura, tuttora in vigore e contrario al primo articolo della Costituzione fondata sulla sovranità popolare, può essere materia di riflessione per chi si propone di cambiare le cose oggi o domani. Sempre tenendo presente come il terribile potere del giudice, che dispone della vita degli uomini, abbia posto da sempre il problema della sua delimitazione, ovviamente senza lederne l’indipendenza. La soluzione adottata (soprattutto nei paesi regolati dalla civil law anglosassone) è stata quella di distinguere nettamente la titolarità dell’azione penale, esercitata dal potere esecutivo mediante il suo “procuratore”, dal ruolo affidato al giudice e predeterminato dalla legge, in modo che l’uno bilanci l’altro. Sicché, in quasi tutti i paesi, vige la separazione del pubblico ministero – che esegue la legge promuovendo l’azione penale – dal giudice, che interpreta la legge nel caso concreto, pronunciando la sentenza. (Tranne che in Francia e in Bulgaria, dove però il pubblico ministero è alle dirette dipendenze del ministro della Giustizia).
Come si sa, invece, in Italia giudice e pm fanno parte della medesima corporazione, indipendente dal ministro della Giustizia e da qualsiasi altra autorità di qualsiasi natura. Con la conseguenza che questa corporazione gestisce l’intero monopolio della “violenza legittima” dello stato, l’essenza stessa della sovranità.
Forse non è ancora tempo, se mai lo sarà, di un’elezione popolare e diretta di giudici e pm, come avviene in America. Ma questo potere sovrano di una corporazione, priva di legittimazione popolare, dovrebbe trovare un limite nella impossibilità di invadere il potere legislativo – democratico perché eletto – grazie all’immunità parlamentare stabilita dall’art. 68 della Costituzione nel testo originario. Una volta travolto quell’argine sotto i colpi di Mani pulite, il potere giurisdizionale è diventato aristocratico, illimitato e irresponsabile. Insomma, né il presidente della Repubblica né il presidente del Consiglio possono sfiorarlo con un dito, mentre esso, alla fine, può intervenire su entrambi.
La morale di questa vicenda? E’ sempre valida, anche al di là di Tangentopoli e della stretta politica giudiziaria: è una fatale illusione credere di poter combattere un crimine commettendone un altro.