Della cultura e del fascismo
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Vecchie polemiche fuorvianti con al centro il solito Bobbio
di Redazione | 24 Gennaio 2015 ore 06:07
Rievocando una polemica degli anni Settanta tra Norberto Bobbio e una giovane storica, Simonetta Fiori su Repubblica rinverdisce la tesi dell’inesistenza di una “cultura fascista” che era stata sostenuta dallo studioso torinese. In realtà, però, a quarant’anni di distanza, gli argomenti di Bobbio appaiono meno convincenti di quelli della sua contestatrice. In sostanza Bobbio distingue tra la sudditanza degli intellettuali al regime (colpa della quale più tardi confessò di non essere personalmente immune) e la creazione di momenti culturali capaci di restare nel patrimonio della nazione. Si tratta di una concezione della cultura piuttosto elitaria, che non tiene conto dell’impronta lasciata nell’organizzazione culturale e nella concezione della società, anche attraverso la costruzione di idee guida, da quella corporativa a quella favorevole all’interventismo nell’economia che hanno resistito, com’è noto, alla caduta del regime e che costituiscono tuttora, nel bene e nel male, assi rilevanti del patrimonio culturale nazionale. D’altra parte, anche se ci si limita a una visione un po’ ristretta, diremmo non antropologica, della cultura affermata da Bobbio in questa polemica (ma poi largamente corretta in studi e analisi più ampie, come quelle che hanno dato vita alla sua poderosa enciclopedia della politica) è difficile negare l’influenza permanente di tendenze culturali strettamente legate al fascismo e al combattentismo, dal dannunzianesimo al futurismo, che difficilmente si possono trascurare in una storia delle arti letterarie e visive. Anche limitandosi alle singole personalità che hanno lasciato un segno profondo, è fin troppo facile sostenere che non restano conseguenze dell’opera di Giuseppe Bottai, mentre sarebbe assai arduo negare che Luigi Pirandello abbia determinato una svolta profonda nell’arte drammatica italiana ed europea. Pirandello, che si iscrisse al fascio durante la crisi Matteotti proprio per marcare la sua adesione in una fase particolarmente critica, non fu l’unico esponente di rilievo della cultura italiana a sentirsi organicamente legato al fascismo, come peraltro accadde, fino alla sua fine tragica, a Giovanni Gentile.
Naturalmente questa discussione non verte sul valore culturale del fascismo allo scopo di promuovere qualsiasi nostalgia. Al contrario, dovrebbe essere cura di chi teme un riaffacciarsi di tendenze all’autoritarismo evitare di fare una caricatura del regime, perché non sono gli aspetti più clowneschi della retorica staraciana che possono essere riproposti. Una lettura distorta della modernità e dalla nazionalizzazione delle masse, magari in chiave antieuropea, ha una radice profonda nella cultura nazionale, compresa quella rappresentata dal fascismo, e per questo va riconosciuta soprattutto da chi intende combatterla.