Macroeconomia, scuola ignaziana
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Lo straordinario personaggio che ha la corazza dell’euro, Draghi
di Stefano Cingolani | 23 Gennaio 2015 ore 10:48 Foglio
Roma. Chiede Giovanni Di Lorenzo, direttore della Zeit, autorevole settimanale tedesco di orientamento liberale: “Si sente offeso dall’accusa di essere un agente dei paesi meridionali?”. Risponde Mario Draghi: “Sì”. L’intervista pubblicata il 15 gennaio e condotta da un eccellente giornalista italiano naturalizzato tedesco, ha aperto al pubblico germanico (e non solo a lui) molte finestre sulla personalità di Draghi. Prima che venisse scelto nel 2011 per dirigere la Banca centrale europea era stato dipinto come un italiano con l’elmetto chiodato. Poi lo hanno definito troppo americano o addirittura “servo dei banksters” visto il suo passaggio a Goldman Sachs. In realtà, la sua personalità è sfuggita spesso a commentatori e analisti che lo hanno seguito con la lente d’ingrandimento e misurato con il bilancino.
Un romano (anche se con eredità patavina) che esalta l’etica del lavoro? Un uomo di sinistra (da giovane) che ha studiato dai gesuiti? Un grand commis dello stato che smantella lo stato imprenditore? Un banchiere centrale che non indossa panni curiali, ma fa lo spiritoso con i giornalisti, sorprende gli analisti per la varietà di dettagli tecnici e tiene in scacco gli uomini di stato? Sarà che ogni sfaccettatura riflette una diversa immagine, ma finora pochi hanno colto la poliedrica personalità dell’uomo che nell’estate 2012 ha salvato l’euro con poche parole (“whatever it takes”) e poi ha fatto seguire i fatti.
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Nel lontano 1932 Ralph Hawtrey scrisse che quella del banchiere centrale è un’arte. La definizione dell’economista inglese, amico intimo di Keynes, sembra ritagliata proprio su Draghi che, determinato nelle sue scelte e abile manovratore nel cercare di realizzarle con il massimo consenso, ha fatto tesoro degli insegnamenti impartitigli al collegio Massimo, la scuola dei gesuiti dove ha studiato dopo aver perso a soli 16 anni il padre già funzionario della Banca d’Italia. Il suo amatissimo professore, padre Franco Rozzi, al quale è rimasto sempre legato, gli ha inculcato l’etica della responsabilità. Lo spirito dei tempi gli ha passato le idee di un socialismo liberale, come egli stesso ha confessato, filtrate attraverso Federico Caffè, keynesiano, consulente della Banca d’Italia governata da Guido Carli, con il quale si è laureato a Roma nel 1970. I cinque anni al Massachusetts Institute of Technology insieme a Paul Krugman e Ben Bernanke, a lezione da Paul Samuelson, Bob Solow, Franco Modigliani, gli hanno fatto compiere un salto nella stratosfera della teoria macroeconomica. Ma in fondo, Draghi è sempre andato avanti con il Principe di Machiavelli in una mano e gli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola nell’altra. Due libri, è noto, non incompatibili.
Draghi ha lasciato un’impronta fortissima negli anni 90, come direttore generale del Tesoro dove era entrato nel 1982 segnalato da Beniamino Andreatta all’allora ministro Giovanni Goria.
Si racconta che mostrasse cautela fino al punto da chiedere sempre chi erano i commensali anche per andare a mangiare una pizza. Oggi abita a Francoforte, però il fine settimana torna a Roma dove trova i compagni di scuola (Luca Montezemolo, Antonio Padellaro, Giancarlo Magalli). Non mancano le puntate nella villa in Umbria vicino a Città della Pieve dove ha ricevuto Matteo Renzi l’estate scorsa. La moglie Serena, padovana di famiglia nobile, discende da Bianca Cappello che sposò Francesco de’ Medici duca di Toscana. La figlia Federica fa la biologa e il secondogenito Giacomo si è laureato con Francesco Giavazzi e lavora in Morgan Stanley.
Si deve a Draghi la relazione introduttiva al mitico convegno sul Britannia del 1992 (ma scese a terra non appena pronunciato il discorso). E’ stato l’architetto delle privatizzazioni, della legge sull’offerta pubblica di acquisto, della riforma bancaria lanciata da Giuliano Amato. Quando nel 2001 al Tesoro arrivò Giulio Tremonti, si dimise. Ma quattro anni dopo eccolo rientrare in un gioco ancor più grande: alla Banca d’Italia, trampolino per la Bce.
A Francoforte ha stretto un rapporto solido con il suo vice il portoghese Vitor Constâncio e con il francese Benoît Coeuré. E’ stata una disdetta l’uscita del rappresentante tedesco Jörg Asmussen (economista bocconiano e socialdemocratico ora segretario di stato al ministero del lavoro) che faceva da filtro con Jens Weidmann. Ma la volontà di tessere il consenso non è mai venuta meno insieme alla capacità di tenere testa alla propria nemesi tedesca.
I frequenti incontri con la cancelliera Merkel hanno fatto arricciare il naso ai puristi, eppure è la conditio sine qua non per l’operazione Salva euro e per quella Salva stati. “Non siamo esattamente amici – ha spiegato lo stesso Draghi – ma abbiamo un buon rapporto di lavoro”. Anche perché il capo della Bce ha un raffinato senso politico. Tanto da essere tirato per la giacca nella corsa al Quirinale, alla quale si è sottratto in modo netto. Adesso ha ben altro da fare in Europa e non solo.
Nell’agosto scorso, con il suo discorso a Jackson Hole davanti a un parterre di economisti e banchieri centrali, ha abbozzato quella che il Financial Times ha definito “la dottrina Draghi”, un paradigma di politica economica basato su tre gambe: la moneta, il fisco e le riforme strutturali.
Un altro esempio di dialettica lo ha dato proprio ieri in conferenza stampa a Francoforte, spiegando che il salto verso il Quantitative easing (o allentamento monetario) ha avuto l’unanimità sulla correttezza in base ai trattati, un’ampia maggioranza sui tempi e consenso sulla condivisione di appena il 20 per cento dei rischi (cioè il compromesso con la Bundesbank). Sembra una distinzione da filosofo scolastico, in realtà è il suo metodo di lavoro: dividere e classificare prima di agire. Ricordando il precetto di sant’Ignazio: “Non prendete mai decisioni in base ad alcuna propensione disordinata”.