La Svizzera crolla sotto il fuoco di Draghi
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Crisi russo-ucraina, elezioni greche e Quantitative easing hanno costretto il franco a sganciarsi dall’euro. Conseguenze? Storiche
di Redazione | 19 Gennaio 2015 ore 09:57
Se qualcuno cercava conferme che viviamo in tempi finanziariamente straordinari l’ha trovata nella storica giornata di giovedì scorso quando il presidente della banca centrale svizzera, Thomas Jordan, ha improvvisamente sbloccato il tasso di cambio fisso franco/euro che vigeva, a 1,20, dal 2011. Nel giro di poche ore la moneta elvetica ha aumentato il suo valore fino al 39 per cento (cambio 0,86), stabilizzandosi poi intorno al 14 per cento (cambio 1,03). Numeri pazzeschi per un mercato liquido come quello delle valute [1].
Questo significa che per comprare un euro basta un franco svizzero e non più 1,20 come in precedenza. Immediato il crollo dei titoli azionari elvetici: tra giovedì e venerdì la borsa di Zurigo ha perso il 15 per cento, e le aziende che sono andate peggio sono ovviamente quelle orientate all’export e al turismo. Da segnalare pure la discesa in territorio negativo del tasso sui titoli di Stato decennali: un effetto collegato anche alla decisione della banca centrale svizzera, di portare, lo scorso dicembre, i tassi a breve a -0,75 per cento. È la prima volta che il rendimento di un decennale scende al di sotto dello zero in un Paese con un’economia sviluppata. Ma non è bastato a fermare la corsa al franco [2].
La Swiss National bank (Bns) aveva deciso di adottare la politica del peg (legare una valuta a un’altra con un cambio fisso) nel settembre 2011, quando tutto il mondo – e in particolare tutti i ricchi europei – volevano comprare franchi svizzeri per proteggersi dalla temuta frantumazione dell’euro. Fubini: «A metà agosto del 2011 la Bce stava intervenendo in modo sempre più incerto e inutile per sostenere le quotazioni del debito della Spagna e dell’Italia. Da tutta l’Europa del Sud in quei giorni di agosto decine di miliardi di euro stavano affluendo in Svizzera nel timore che un’asta dei titoli di debito del Tesoro di Roma potesse andare deserta sancendo la fine dell’euro». Molto risparmio, non solo italiano, affluiva nelle banche in Ticino, a Zurigo o a Ginevra alla ricerca di un porto sicuro [3].
Bersagliato dagli acquisti dall’estero, il franco svizzero si stava rivalutando rapidamente, mettendo in difficoltà l’industria esportatrice elvetica: farmaceutica, orologi di lusso, turismo. Il predecessore di Thomas Jordan, Philipp Hildebrand reagì: dichiarò che non avrebbe tollerato un tasso sotto 1,20 euro per un franco, quando nelle settimane precedenti il cambio era arrivato a 1,04. Ma come avrebbe fatto a mantenere quella soglia se i capitali continuavano ad arrivare? Avrebbe stampato franchi potenzialmente senza limiti e li avrebbe venduti in cambio di valuta estera. Lo disse, e lo fece [4].
Oggi, dopo più di tre anni di interventi continui, la Banca centrale svizzera è diventata un vero e proprio hedge fund: nel suo bilancio ci sono attività short (al ribasso) contro la propria moneta per 600 miliardi di franchi (500 miliardi di euro), con le casse che straripano di titoli (soprattutto bond tedeschi e olandesi ma anche azioni) in euro e dollari. Capolino: «Sono posizioni ancora aperte e che solo il 15 gennaio, giorno nero per le borse, hanno provocato perdite per 80 miliardi di franchi. Perdite che comunque si confrontano, come in ogni hedge fund che si rispetti, con le rilevanti plusvalenze del passato su quel portafoglio» [5].
L’attivo di bilancio della banca centrale svizzera era dunque diventato troppo grosso per un’economia di 8 milioni di cittadini, raggiungendo l’80 per cento del Pil dell’intera Confederazione (basta confrontare i 500 miliardi della Bns con i 2.168 miliardi di attivo della Bce). Negli ultimi tempi la Bns stava intervenendo al ritmo di 30 miliardi di franchi (quasi 40 miliardi di euro) al mese. Se parametrata alla taglia del paese, si può parlare di una delle più vaste operazioni di creazione monetaria della storia [3].
Quattro sono le cause, tutte “esterne”, che non hanno lasciato scampo alla Svizzera, costringendola a mollare: 1) la crisi russo-ucraina; 2) l’incertezza della politica greca, che andrà alle urne il 25 gennaio; 3) l’adozione ormai certa di un Quantitative easing da parte della Bce, che si riunirà il 22 gennaio; 4) l’inarrestabile corsa del dollaro [6].
La guerra in Ucraina, le sanzioni, la sfiducia dei russi verso il sistema di Vladimir Putin hanno inferto i primi colpi: gli oligarchi di Mosca hanno portato il loro denaro, per decine di miliardi, nei caveau elvetici. Poi sono cominciati a tornare in Svizzera anche i capitali greci a partire dall’11 dicembre scorso, quando il premier greco Samaras ha anticipato le elezioni presidenziali andate poi a vuoto, sancendo il ritorno alle urne su cui pesa la probabile vittoria del partito Syriza contrario alla Troika [3].
(Notizia di questi ultimi giorni l’assalto agli sportelli bancari ellenici, dove gli ingenti prelievi di euro hanno obbligato le banche a richiedere precauzionalmente 3 miliardi di liquidità straordinaria all’istituto centrale) [7].
Già questo rendeva sempre più difficile difendere un tasso di cambio rispetto ai movimenti dei capitali. Il colpo del ko è arrivato quando nel board della Bce i tedeschi sono andati sotto e Draghi è stato autorizzato a procedere all’avvio di un piano di Quantitative easing per sostenere i prezzi (tradotto: creare inflazione) comprando almeno 500 miliardi di titoli di Stato. A quel punto, almeno secondo i piani, la quantità di euro disponibili crescerà fortemente e l’abbondanza farà scendere il prezzo (già in picchiata da almeno tre mesi) [8].
Thomas Jordan dunque è la prima vittima collaterale di Mario Draghi? La sua mossa prende semplicemente atto che l’agganciare il franco all’euro aveva senso con un euro sostanzialmente stabile. Ma con i ripetuti annunci di misure non convenzionali in arrivo, l’euro ha preso a scendere. E mantenere il cambio fisso con una moneta in picchiata sarebbe stato un suicidio anche per la più solida delle banche centrali. E gli svizzeri hanno alzato le mani: avete vinto, via il tetto [5].
Come hanno osservato gli economisti di Jci Capital, è quindi «ipotizzabile che la Bns sia stata costretta a ritirarsi prima che la battaglia si facesse troppo sanguinosa». E così si spiega anche l’impennata delle altre borse europee (che aspettano il Qe da almeno due anni). La mossa della Bns sarebbe infatti avventata se non avesse la certezza che il 22 gennaio la Bce darà il via all’acquisto di titoli di Stato [9].
Operazione quella della Bce che, data l’entità della contromossa elvetica, potrebbe essere anche più sostanziosa del previsto sia dal punto di vista quantitativo (acquisti superiori ai 500 miliardi di euro stimati dagli analisti) che qualitativo (acquisti a manetta dei bond emessi dai Paesi più bisognosi, l’Italia, senza perdere tempo a comprare quelli tedeschi) [9].
Infine, a spingere verso indebolimento dell’euro è anche la politica monetaria americana. Brambilla «Tra le principali valute, il biglietto verde è infatti l’unica che non sia più sotto un programma di allentamento quantitativo (come invece lo sono l’euro, la sterlina inglese e lo yen pilotato dal governatore della BoJ, Haruhiko Kuroda). E soprattutto è l’unica su cui esistano aspettative certe di un primo rialzo dei tassi, che secondo la Federal Reserve di Janet Yellen dovrebbe avvenire nel corso dell’estate» [7].
In sintesi, la Fed è l’unica banca centrale che si sta muovendo in senso diametralmente opposto alla Bce. Ovvero con una politica monetaria che in termini relativi risulta restrittiva sostenendo l’apprezzamen-to del dollaro nei confronti della moneta unica, con l’appoggio di uno sviluppo del Pil e di attese inflative superiori a quelle previste per l’Eurozona [7].
Alla base dei problemi della Svizzera (prima con l’introduzione del tetto, poi con la sua improvvisa abolizione) sta il potenziale destabilizzante dei movimenti di capitale a breve in un mondo interconnesso [10].
Il mercato delle valute attiva ogni giorno scambi per 5mila miliardi di dollari, pari a circa un terzo del Pil mondiale, ovviamente annuale (erano 3,3 nel 2007, cioè prima della crisi). Wall Street, a confronto, è una nana con i suoi 49 miliardi giornalieri. E tra il 5 e il 6 per cento di questa frenetica attività di trading riguarda il franco svizzero [10].
Onado: «Le crisi degli anni Novanta hanno insegnato che nessuna banca centrale può contrastare flussi che assumono sempre dimensioni multiple rispetto alle riserve che essa può mettere in campo. È stato così per i Paesi del Sud-Est asiatico, quando il flusso di capitali si è improvvisamente invertito; è stato così per Messico e Argentina che avevano ancorato la loro moneta al dollaro. E non può che essere così nelle condizioni odierne, visto che la dimensione complessiva dei movimenti a breve è cresciuta enormemente» [10].
Ma intanto adesso i mercati si attendono dalla Bce un intervento molto forte, molto concentrato nel tempo. E forse 500 miliardi non sono sufficienti se l’obiettivo con il Qe è quello di mantenere l’euro intorno a 1,15-1,20 dollari, il più a lungo possibile, per avvantaggiarsi nella guerra valutaria in atto e far ripartire le economie europee [7].
E dubbi persistono sulle modalità di acquisto: comprare 120 miliardi di Bund tedeschi, che ora sono carissimi tanto da avere rendimenti negativi, darebbe davvero una spinta e nuove prospettive all’economia europea? E infine a rendere sterile il tutto sarebbe il cosiddetto no-risk sharing, la ripartizione tra le varie banche centrali dei Paesi dell’euro di eventuali forti minusvalenze sui titoli di Stato che la Bce comprerà sul mercato. Meccanismo ovviamente preteso dai tedeschi per le ragioni di elettorato interno, ma che di fatto renderebbe il «whatever it takes» del 2012 di Draghi una sorta di promessa da marinaio [5].
Capolino: «E dopo la Bce? Finora ad azionare l’arma della stampa di moneta di massa sono stati americani, inglesi, giapponesi, svizzeri e forse europei dell’Eurozona. Chi manca? I cinesi. Che stanno comunque soffrendo un dollaro (a cui lo yuan è ancorato) in forte rialzo. Che cosa farà la People’s Bank of China? Farà come gli svizzeri? Insomma, la guerra è appena iniziata» [5].
Note: [1] Il Post 15/1; [2] Il Sole 24 Ore 17/1; [3] Federico Fubini, la Repubblica 17/1; [4] Lino Terlizzi, Il Sole 24 Ore 16/1; [5] Gabriele Capolino, MilanoFinanza 15/1; [6] Walter Riolfi, Il Sole 24 Ore 16/1; [7] Massimo Brambilla, MilanoFinanza 17/1; [8] Giorgio Dell’Arti, La Gazzetta dello Sport 16/1; [9] Marcello Bussi, MilanoFinanza 16/1; [10] Marco Onado, Il Sole 24 Ore 16/1.