Bersani e il partito dell’inciucio
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Quel largo fronte del Pd che spinge il segretario a un patto coi Caimani. Sul
rigido tracciato che Bersani dovrà seguire per trasformare l’incarico ricevuto ieri da Napolitano in una nomina utile a formare un governo, i rigorosi paletti fissati dal Quirinale (in Parlamento ci si va solo con numeri “certi”) hanno avuto sul segretario del Pd lo stesso effetto prodotto durante le gare di Formula uno dall’ingresso in pista delle luci gialle della safety car. La safety car è il veicolo che viene fatto girare sul circuito quando, in seguito a un grave incidente, gli organizzatori decidono di controllare la gara facendo rallentare le macchine e consegnando le chiavi della corsa a un incontestabile arbitro arrivato dall’esterno per regolare il traffico. Nel caso in questione la safety car posizionata di fronte al cruscotto del segretario è quella che Napolitano ha fatto entrare in pista giovedì pomeriggio per indicare al leader del centrosinistra la sola strada possibile per scongiurare nuovi incidenti e tentare di arrivare al traguardo seguendo l’unico percorso utile per non finire contro i guardrail e formare un governo: andare in Parlamento e cercare i voti dell’unica coalizione che ha mostrato disponibilità a dare “un sostegno parlamentare”, ovvero il centrodestra. La novità è che sulla macchina di Bersani il numero di persone disponibili a seguire la rotta indicata dal segretario (o governo con Grillo o elezioni) è inferiore rispetto a qualche tempo fa. E giorno dopo giorno il leader della coalizione si sta rendendo conto che molti dei suoi alleati, tra un incidente e un altro, si stanno trasferendo sulla vettura guidata da Napolitano. Risultato? Il partito del Grande accordo con il centrodestra, “del grande inciucio”, non è più una piccola e silenziosa componente della coalizione e a poco a poco le tessere di questa creatura politica che sta provando a correggere la direzione del segretario iniziano a venire fuori. La tessera numero uno è Letta, la due Franceschini, la tre Veltroni, la quattro D’Alema, la cinque Fioroni, la sei Bindi e la sette – sorpresa – è Renzi: che come raccontato giorni fa al Foglio da Alfredo Bazoli (deputato renziano) e come confermato ieri da Graziano Del Rio (consigliere principe del sindaco) è su una linea sempre più napolitaniana e sempre meno bersaniana: “Piuttosto che andare al voto bisogna provarle tutte e all’occorrenza non bisogna vergognarsi di cercare una soluzione anche con il centrodestra”. Resisterà il segretario sulla sua linea o governo con Grillo o nulla?
“Da dopo le consultazioni – racconta al Foglio un esponente del Pd vicino a Bersani – Pier Luigi ha capito che se vuole governare senza il centrodestra deve fare un passo indietro e rinunciare a fare un governo. Sta a lui decidere che strada prendere. Giovedì oggettivamente ha offerto una piccola anche se cauta apertura ma nei prossimi giorni agirà seguendo due binari: formalmente, proverà ancora a stanare i grillini; ma in realtà cercherà un modo dignitoso di conquistare i voti del centrodestra senza essere accusato di aver fatto un accordo con il Caimano”. I voti del centrodestra, già. Ma in che senso? Su questo punto – anche se tutto è ancora liquido e anche se ieri nel Pd la risposta più diffusa alla domanda che “farà il segretario” era “boh” – la strategia c’è. Bersani sa che il modo migliore per conquistare i voti di un pezzo di centrodestra è agganciare la Lega di Maroni. E dai colloqui portati avanti in questi giorni dagli ambasciatori del Pd in terra leghista (Daniele Marantelli e Paola De Micheli) emerge questa convinzione: a determinate condizioni Berlusconi potrebbe autorizzare i 17 senatori del Carroccio a votare la fiducia a un governo di centrosinistra. Le condizioni? Primo: concessione alla Lega di diverse presidenze di commissione e un impegno scritto sul tema dei costi standard e dell’autonomia impositiva regionale. Secondo: concordare con il centrodestra il nome da mandare al Quirinale. Bersani non andrà oltre questi paletti, e a meno di svolte clamorose non tradirà il mandato affidatogli dalla direzione: o governo di cambiamento (dunque niente Pdl) o si va alle elezioni. “Tutti i tentativi sono ancora possibili – dice Nicola Latorre, senatore del Pd – ma non credo che la Lega romperà senza un’implicita intesa con il Pdl”. “Di sicuro – aggiunge Roberto Giachetti, deputato Pd, vicepresidente della Camera – Bersani ha capito che la linea ‘o si governa con Grillo o tutti a casa’ non ha cittadinanza. Napolitano ha offerto una strada precisa sulla quale muoversi. Vedremo se saremo in grado di seguire le indicazioni del presidente”. Le consultazioni del segretario dureranno alcuni giorni e prima di mercoledì Bersani non salirà al Quirinale per sciogliere la riserva. Quando salirà, se elencherà i nomi dei 158 senatori pronti a votare la fiducia, Napolitano gli permetterà di andare alle Camere. In caso contrario, verrà affidato a qualcun altro l’incarico (i nomi sono sempre quelli di Pietro Grasso, Fabrizio Barca, Ignazio Visco, Fabrizio Saccomanni). In caso di fallimento, l’idea di Bersani resta sempre quella: il voto. Ma se mai si arriverà a quel punto il segretario sa che la safety car di Napolitano quel giorno potrebbe essere davvero molto più affollata del previsto.
di Claudio Cerasa – @claudiocerasa