L'equilibrio indispensabile
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Se il leader del Pd avesse preso atto della realtà, il tempo trascorso sarebbe
stato impiegato per preparare soluzioni diverse
Se tenessero alle sorti del Paese, le forze politiche avrebbero dovuto riconoscere, subito dopo il voto, che vi sono almeno tre fattori da cui è impossibile prescindere. In primo luogo non esistono vincitori. In un momento di buon senso Pier Luigi Bersani aveva ammesso che neppure il 51% avrebbe consentito al suo partito di governare il Paese. Oggi sembra invece convinto che lo 0,4% in più rispetto alla coalizione di centrodestra arrivata seconda lo autorizzi a pretendere per la sua parte, insieme alla presidenza delle Camere, la guida di un governo che vivrà alla giornata contrattando continuamente la fiducia con forze e gruppi decisi a pretendere, per esserne ripagati, concessioni non sempre utili e ragionevoli.
In secondo luogo occorrerà tornare alle urne, ma non con questa legge elettorale. Sapevamo che quella dell'on. Calderoli è una pessima legge, ma non potevamo immaginare che le elezioni si sarebbero concluse con un photofinish e che il voto avrebbe regalato il 54% della Camera al minor perdente. Votare con questa «lotteria» sarebbe molto più azzardato di quanto non fosse il secondo voto greco nel giugno del 2012. Potremmo avere un altro risultato inconcludente al Senato e addirittura una maggioranza del Movimento 5 Stelle alla Camera.
In terzo luogo ciò che maggiormente serve all'Italia in questo momento è un governo che non susciti i dubbi dell'Europa e lo scetticismo dei mercati. Ancora prima delle molte riforme necessarie al Paese occorre far capire immediatamente a tutti che la linea politica sarà quella concordata a Bruxelles nelle scorse settimane: la crescita, indubbiamente, ma senza deroghe al programma di risanamento dei conti pubblici, se non quelle concordate con l'Ue. Considerata alla luce di questa esigenza la strategia di Bersani ha avuto l'effetto di allungare i tempi dell'incertezza e di rendere la crisi italiana intraducibile in qualsiasi altra lingua europea.
Se il leader del Pd avesse preso atto della realtà, il tempo trascorso tra il voto e le consultazioni sarebbe stato impiegato per preparare soluzioni diverse, più adatte alle esigenze del Paese. So che non è realistico pensare a un'alleanza organica tra il Pd e il Pdl. Berlusconi ha risollevato le sorti del suo partito e continua ad avere un consenso che corrisponde grosso modo a un terzo dei votanti. Ma è una figura troppo controversa per essere accettabile alla maggior parte del Pd. Le differenze tra i due partiti, tuttavia, non sono tali da precludere il loro appoggio convergente a un governo istituzionale composto da persone competenti, credibili non soltanto in Italia, soprattutto estranee al clima delle contrapposizioni frontali e delle reciproche scomuniche. Non sarà comunque un governo di legislatura. Quando avrà cambiato la legge elettorale (un obiettivo che richiede quanto meno un accordo fra i due maggiori partiti), avviato qualche riforma istituzionale tra quelle su cui vi è un più diffuso consenso e dimostrato all'Europa che l'Italia non intende rinunciare al risanamento dei conti pubblici, vi saranno nuove elezioni in un clima diverso. Aggiungo che un paio d'anni all'opposizione sarebbero per il Movimento di Grillo la migliore delle scuole possibili.
È questa, credo, la strada per uscire dalla crisi. Permetterebbe di non perdere altro tempo alla ricerca di una maggioranza improbabile e il nuovo governo darebbe al mondo, ancora prima di cominciare a lavorare, il più efficace dei segnali.
Sergio Romano per Il Corriere della Sera 22/3