Un Papa che vuole chiamarsi “vescovo di Roma”
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sa qual è la strada dell’ecumenismo. Il teologo protestante Paolo
Ricca pensa che Bergoglio non possa sconfessare il dogma dell’infallibilità, ma solo fare come se non ci fosse. “E tutto cambierebbe”
Jorge Mario Bergoglio, il Papa venuto dalla fine del mondo che al mondo che si è presentato come “vescovo di Roma”, accende, anche solo per questo, forti speranze nel rilancio del dialogo ecumenico. Non poteva forse esserci, in questo senso, un riconoscimento più importante di quello contenuto nella decisione del patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo I, di intervenire personalmente, oggi, alla messa di insediamento del nuovo Pontefice.
E’ la prima volta, secondo quanto è stato sottolineato dallo stesso Fanar (il nome della sede patriarcale a Istanbul) che questo accade dallo scisma del 1054 fra cattolici e ortodossi. Mai era successo, nemmeno dopo il Concilio Vaticano II, che del dialogo tra cristiani separati aveva fatto uno dei suoi principali scopi. E nemmeno dopo l’abbraccio tra Papa Paolo VI e il patriarca ecumenico di Costantinopoli Atenagora, che (quasi cinquant’anni fa, nel 1964) metteva fine alla millenaria distanza tra le due chiese, eliminava il reciproco anatema e gettava le basi del futuro dialogo. Un’altra prima volta, insomma, tra le tante legate a Papa Francesco, che non viene messa in ombra nemmeno dalla maggiore freddezza di Kirill, patriarca di Mosca (la “terza Roma”), il quale resterà in Russia. Fonti del patriarcato di Costantinopoli confermano al Foglio che, per Bartolomeo I, decisive sono state “le parole con cui Papa Francesco ha sottolineato il suo essere vescovo di Roma e ha anche indicato il proprio predecessore, Joseph Ratzinger, come ‘vescovo emerito’. Sono parole che appaiono armoniche con la visione della chiesa nel patriarcato di Costantinopoli. Il quale, bisogna ricordarlo, ha sempre riconosciuto un primato in carità e nella collegialità alla chiesa di Roma (nel primo millennio, prima dello scisma del 1054, la chiesa era amministrata dai cinque patriarcati di Roma, Costantinopoli, Alessandria, Gerusalemme, Antiochia e il primato toccava a Roma, ndr). Ma non dobbiamo dimenticare il precedente del 2008, quando Benedetto XVI invitò per la prima volta un patriarca ortodosso, sempre Bartolomeo I, a parlare al sinodo dei vescovi cattolici”. La stessa fonte, riportando i motivi di speranza e di soddisfazione del patriarcato costantinopolitano, parla anche “della sensazione che con Papa Bergoglio si stia aprendo una strada nuova e promettente per il dialogo ecumenico e per incoraggiare il cammino della piena riconciliazione. Ora o mai più”.
Così va dunque letta la decisione di Bartolomeo I di essere presente nel solenne momento dell’insediamento del Papa. Un annuncio che ha provocato l’entusiasmo dello storico della chiesa Alberto Melloni. Il quale, sul Corriere della Sera di domenica scorsa, ha ripercorso la “sequenza da vertigine” dei primi passi del nuovo pontificato: “Con un gesto profetico senza precedenti in venti secoli di storia, il successore di Andrea, il patriarca ecumenico Bartolomeo I, ha deciso di venire a Roma per la messa del 19 marzo. Tutti i Papi da Paolo VI in qua hanno visitato e ricevuto l’arcivescovo di Costantinopoli. Ma mai il vescovo di Roma si era presentato alle chiese con tanto rigore da indurre il patriarca a venire a salutarlo subito, all’inizio del suo ministero. In piazza San Pietro quando Pietro e Andrea si abbracceranno, vedremo l’inizio di un inizio”. Toni di speranza, anche se più compassati, anche nelle reazioni di gran parte del mondo protestante. Tutto fa perno attorno a quelle parole (“vescovo di Roma”) assai ben ponderate da Papa Bergoglio.
A caldo, subito dopo l’elezione di Papa Francesco, il teologo valdese Fulvio Ferrario, coordinatore della commissione Ecumenica delle chiese battiste, metodiste e valdesi, aveva detto all’agenzia Nev (Notizie evangeliche) che “certamente il saluto che Francesco ha rivolto alla città di Roma e al mondo suscita viva simpatia”, ma aveva pure giudicato “a dir poco premature” le “analisi chilometriche e dettagliate che già abbiamo subito relativamente a questo o quel particolare sull’autopresentazione di Francesco”. Per concludere che “avremo tutto il tempo di dialogare con lui nelle forme che si mostreranno più feconde”.
Anche il pastore e teologo valdese Paolo Ricca, sempre con la Nev, aveva espresso una prima impressione “certamente positiva”, anche se “da un punto di vista protestante il Papa è sempre il Papa, la cui autorità si fonda sul mito del primato di Pietro. Fatta questa premessa, devo dire che Papa Francesco si è presentato bene. Tre in particolare sono gli elementi positivi che mi hanno colpito. Prima di tutto l’insistenza sulla categoria del ‘vescovo di Roma’ con cui si è ripetutamente definito senza mai pronunciare la parola ‘Papa’. La dimensione della chiesa locale, di una diocesi specifica, viene prima della funzione e della pretesa di pastore universale, particolarmente problematica in campo ecumenico. In questo modo il nuovo Papa afferma anche che la sua azione nella diocesi di Roma sarà lo specchio, il banco di prova della sua funzione universale”. Ricca ha anche commentato il “nome scelto, Francesco. E’ un nome impegnativo e promettente, se effettivamente corrisponde a un programma. Francesco richiama una scelta di evangelicità radicale, il vangelo ‘sine glossa’, cioè senza commenti, senza orpelli, senza aggiunte. Infine, è stato particolarmente significativo il fatto che il nuovo Papa abbia chiesto la benedizione dei fedeli prima di essere lui a benedire loro. E’ un gesto che introduce l’idea di reciprocità come base delle relazioni all’interno della chiesa. Certo, tutte queste buone premesse andranno verificate nei fatti, ma per il momento le riceviamo come delle promesse, quindi in speranza”.
Al Foglio, il professor Ricca ribadisce quei primi giudizi promettenti. Nei primi passi del Papa, dice, “ci sono fatti originali e nuovi, ai quali non eravamo abituati, e che naturalmente non sono tanto eccezionali in sé quanto nel contesto del ministero papale per come lo abbiamo conosciuto. Quella del Papa è una figura quasi sovrumana, che dovrebbe avere ruoli semidivini di ‘pastore universale’, come tradizionalmente viene definito, soprattutto dopo il Concilio Vaticano I. Da Papa Francesco arrivano ora tutti segni in controtendenza, rispetto all’escalation della figura e della funzione papale così come si sono andate delineando fino a Giovanni Paolo II. Un ‘superman’ che questo Papa, invece, sembra voler ricomporre in misure più umane, più pastorali nel senso ordinario del termine”.
Da protestante, Ricca vede naturalmente questo come un fatto positivo, “ma soprattutto penso sia un fatto positivo per la chiesa cattolica. Per noi il papato è una sovrastruttura – sottolinea – e questo non cambia, e se osserviamo tutto ciò con partecipazione, lo facciamo comunque dall’esterno. Le ragioni del nostro dissenso – dal papato in quanto tale, dall’esistenza stessa dell’istituzione papale, dal ruolo centrale che ha raggiunto nella chiesa cattolica – tutte quelle ragioni di riserva sono ancora là. Ma se si avvia un processo in controtendenza, in una direzione antitetica a quella sfociata nel Vaticano I (poi confermata dal Vaticano II ed esaltata dai mezzi di comunicazione di massa in una maniera imprevedibile. Al punto che, paradossalmente, c’è più papato nella chiesa cattolica, e dunque nella cristianità e nell’opinione pubblica, dopo il Vaticano II che dopo il Vaticano I), se, ripeto, davvero questo pontificato, come sembra, vuole mettersi in controtendenza rispetto a quello che abbiamo sperimentato negli ultimi secoli (anche ai tempi della Riforma il papato aveva una posizione dominante all’interno della cristianità), mi sembra qualcosa di molto bello, di molto coraggioso, di molto promettente”. Il vero nodo, spiega ancora Paolo Ricca, “riguarda i poteri del Papa. E’ lo stesso nodo sollevato dal teologo Hans Küng: quando ha messo in dubbio il dogma dell’infallibilità, ha messo in dubbio la questione dei poteri del Papa. E anche tutta la riserva che arriva dall’oriente cristiano e dalle chiese ortodosse, verte prossoché unicamente su questo punto basilare: i poteri. E’ il problema che, nel 1054, ha segnato la rottura tra chiesa d’oriente e chiesa d’occidente. Ed è lo stesso problema che, nel Cinquecento, ha affrontato la Riforma luterana. Per questo, nel 1537, Lutero disse che la chiesa deve vivere senza Papa. E’ difficile dialogare finché il Papa pretende di essere pastore di tutte le chiese e di governare tutta la cristianità, anche quella che – con tutto il rispetto dovuto al personaggio – non lo riconosce come pastore universale. Lo riconosce come fratello in Cristo, lo riconosce come ministro della chiesa, lo riconosce come vescovo di Roma, non come Papa di tutti”.
Per questo, riguardo alle prospettive del dialogo ecumenico, Paolo Ricca vede con grande favore “il fatto che Bergoglio, all’atto dell’elezione, si sia chiamato ‘vescovo di Roma’. E’ molto importante proprio nella prospettiva dei poteri. Non perché io creda che Bergoglio vorrà mai mettere in discussione il dogma del Vaticano I. Ma se, semplicemente, non lo usasse mai? Se mettesse in atto un esercizio più collegiale della sua funzione, più mitigato nei suoi aspetti assolutistici, meno smisurato? Se ci fosse un modo di vivere e di attuare il papato in cui, nei fatti, si mettono in ombra – nel senso che si lasciano cadere – i poteri che gli vengono attribuiti dal dogma? Ecco, allora tutto cambierebbe. Allora si può cominciare a ragionare”.
© - FOGLIO QUOTIDIANO di Nicoletta Tiliacos