Assalto a Napolitano
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Botte tra costituzionalisti. Quella disputa politica che si nasconde dietro lo scontro Bersani-Quirinale
Una volta terminata l’appassionantissima scazzottata sul dossier relativo alla trasparenza dei costi dell’apparato del Pd, l’attenzione del centrosinistra tornerà a essere rivolta a un momento particolare di questo inizio legislatura collocabile alla fine della prossima settimana (tra il 23 e il 24), quando il leader del partito di maggioranza relativa, Pier Luigi Bersani, dopo aver accettato “con riserva” dal presidente della Repubblica l’incarico di formare un nuovo governo salirà al Quirinale e dirà al capo dello stato quale strada intende percorrere: sciogliere la riserva e chiedere al capo dello stato la nomina presentandosi con il proprio governo in Parlamento, oppure restituire la palla al presidente, rinunciare a farsi votare la (s)fiducia al Senato ed evitare di mettere in moto tutte le procedure per la formazione del nuovo esecutivo. Al contrario di quello che si potrebbe credere, la questione non è archiviabile alla semplice voce “disputa dottrinale” ma rappresenta il terreno di una battaglia politica e culturale al centro della quale si trova la figura del presidente della Repubblica. Una battaglia che gira attorno a un problema mica da poco: se Bersani si intestardisce e decide di andare a “stanare i grillini” e farsi votare la fiducia, Napolitano ha oppure no i poteri per impedire che questo accada?
I costituzionalisti di area bersaniana (almeno gran parte di essi) sostengono che il capo dello stato, non essendo l’Italia una repubblica presidenziale, non può impedire a un politico che ha ricevuto l’incarico di andare alle Camere e farsi votare la fiducia e non è certo un caso che la storia del nostro paese sia piena di casi di governi di minoranza che si sono presentati in Parlamento senza una maggioranza costituita (tesi sostenuta venerdì in prima pagina sull’Unità da Marco Olivetti, docente di Diritto costituzionale di rito bersaniano). I costituzionalisti di area “quirinalizia” sostengono invece una tesi diversa che se fosse condivisa anche dal capo dello stato (come sembra) porterebbe Bersani a scontrarsi clamorosamente contro un muro che potrebbe essere davvero più resistente del previsto: naturalmente, quello di Napolitano.
“Come sa chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la Carta – dice il costituzionalista Stefano Ceccanti, ex senatore Pd con buone entrature al Colle – anche l’incarico più pieno del mondo non è una delega in bianco ma è un semplice mandato a verificare se esista una maggioranza capace di supportare un governo in entrambe le Camere. E quando l’incaricato torna dal Presidente non c’è possibilità di contraddizione: o ha raccolto una maggioranza e ritira la riserva con cui ha accettato o rinuncia e l’iniziativa ritorna al presidente. Non è pensabile in termini di correttezza costituzionale che chi non ha la maggioranza chieda di essere nominato. E d’altra parte non si può chiedere al capo dello stato di autoridurre i suoi poteri in presenza di una situazione incerta che ne richiede invece l’esercizio attivo”. In sintesi, mentre il fronte bersaniano sostiene che il segretario avrebbe la forza costituzionale per “costringere” Napolitano a dargli il lasciapassare per portare il suo governo in Parlamento e farsi votare la fiducia, dall’altra parte il fronte quirinalizio considera l’ipotesi semplicemente irrealistica. E la questione ha un suo rilievo non solo “dottrinale” ma anche squisitamente politico: grazie alla fiducia che riceverebbe alla Camera, Bersani sarebbe il nuovo presidente del Consiglio, farebbe decadere (dal momento della nomina dell’esecutivo) il precedente governo (cioè quello Monti) e anche in caso di sfiducia al Senato risulterebbe il primo ministro sfiduciato ma in carica per gli affari correnti, cosa che permetterebbe al segretario di traghettare il governo fino a nuove elezioni e di seguire da Palazzo Chigi, per esempio, l’elezione del prossimo presidente della Repubblica.
“Il problema – dice al Foglio Francesco Clementi, docente di Diritto pubblico comparato, sostenitore di Renzi – è che la nostra Carta non dice nulla sul modo in cui si deve formare un governo e dunque è comprensibile che ci sia qualcuno che cerchi di ‘piegare’ la Costituzione rispetto all’esito elettorale. Il punto però – dato curioso – è che a sostenere che il capo dello stato debba essere un notaio, e non il dominus nel processo di formazione del governo, sono le stesse persone che fino a due minuti fa ripetevano a squarciagola che l’Italia, da buona repubblica parlamentare, deve controbilanciare i poteri del premier con quelli del capo dello stato e deve combattere i leader che dimostrano di avere una visione plebiscitaria delle loro funzioni. Della serie: se quello che sta cercando di fare oggi Bersani l’avesse fatto Berlusconi, oggi il centrosinistra sarebbe già in piazza a difendere il capo dello stato e a gridare al golpe, facendo un girotondo e cantando l’inno nazionale…”.
di Claudio Cerasa – @claudiocerasa