Boris, il busto, la pipì
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Il correttismo linguistico tocca nuove minacciosissime vette. Il caso Johnson spiegato con la storia di una toilette
Boris Johnson (foto LaPresse)
di Giuliano Ferrara | 22 Aprile 2016 ore 20:00
Dog-whistle racism: questa l’accusa bella e pronta per Boris Johnson. Il conservatore sindaco di Londra, un tipo spiritoso, combattivo e dalla lingua sciolta, fa campagna per la Brexit. Ha accolto Obama, arrivato nella sua città per sostenere che la Gran Bretagna ha tutto da perdere da un’uscita dall’Unione europea, con un articolo critico. Ha sostenuto che il suo paese ce la può fare benissimo anche fuori da un sistema che da 43 anni e sempre più intensamente con il passare del tempo obbliga società, economia e istituzioni britanniche a sottomettersi a una burocrazia e a una legislazione estranee alle tradizioni e agli interessi del Regno Unito. Ha detto che Obama è un ipocrita, che gli americani non tollererebbero limitazioni alla sovranità e all’autogoverno come quelle imposte dall’Unione a Londra. Fin qui tutto regolare. Ma per esprimersi con i colori della polemica Johnson ha aggiunto: un busto di Churchill è scomparso dall’ufficio Ovale della Casa Bianca all’inizio della presidenza Obama (ce lo aveva piazzato George W. Bush) ed è stato restituito all’ambasciata britannica a Washington. Johnson pensa che dietro la scelta iconica del presidente Obama, lui stesso narratore affascinante del proprio romanzo di formazione radicato anche nella parte africana e keniota della sua famiglia d’origine, può esserci un’ancestrale ostilità verso il colonialismo imperiale inglese di cui Churchill fu ardente sostenitore e promotore. Sembrerebbe un argomento polemico ficcante ed espressivo, e punto.
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Invece no. Dog-whistle racism indica un discorso a doppio registro, come i fischietti che servono per chiamare i cani in alta frequenza senza disturbare le orecchie degli umani, che non la captano. Ti comporti da razzista perché il riferimento al Kenya serve ambiguamente a connetterti con un sottogruppo animato da diffidenza razziale mentre affetti di dire una cosa convenzionale che tutti possono accettare o respingere, senza connotazioni odiose. Il correttismo linguistico, da sempre complemento grottesco di quello politico, ideologico, religioso, di costume, raggiunge nuove vette di sofisticata e minacciosa complessità. Mi era capitato di osservare, non molto tempo fa, che se dico quanto sono bravi gli zingari a suonare il violino, semplicemente una connotazione di tipo antropologico e culturale, ecco che puoi essere sospettato di adottare un’espressione etnicizzante e sottilmente razzista, il che è palesemente assurdo. Nella democrazia egualitaria intesa come religione dogmatica e prescrittiva non trovano spazio legittimo il violino rom del Circo di Mosca né la stessa autobiografia Africana di Barack Obama. Non è pazzesco?
La cosa funziona anche all’inverso, e per questo è indizio di un tradimento della genuinità e pertinenza dell’espressione linguistica in fatto di politica e di società. Per una questione di ordine logico, a me sembra che il transgender può e deve legittimamente avere la strada aperta a cambiare il suo sesso anagrafico, dopodiché andrà al cesso delle donne se maschio cambiato in donna o a quello dei maschi se donna cambiata in maschio. Invece no. Nel North Carolina una legge che dispone quello che i locali conservatori chiamano l’abbinamento di eguaglianza e privacy, secondo la massima “va’ a fare pipì dove ti portano i tuoi genitali”, ha sollevato un immenso furore. Come sempre il Big Business ha fatto fuoco e fiamme in nome della sua inclinazione a sposare le cause mainstream, e da PayPal alla Apple tutti si sono schierati per sanzioni economiche e industriali contro quello stato che rende possibile una legge razzista o, se preferite, dog-wistle. E Mr. Trump, che con i messicani “pigri e stupratori” è notoriamente andato giù piuttosto duro, si è riscoperto una vena liberal e politically correct di taglio newyorchese: uno deve andare al bagno, ha detto, dove si sente più a suo agio. Domani vado a sentire l’Elettra al Metropolitan Opera House, e nell’intervallo vado a far pipì nella toilette femminile del tempio dell’Upper West Side, infatti là mi sento a mio agio. Il giorno dopo ripeto l’esperimento nella Trump Tower. Vediamo che succede.
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