È la fine dei paradisi fiscali
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Non esistono più sulla Terra luoghi sicuri per nascondere il proprio tesoretto. Resteranno solo i criminali
Di Marino Longoni, Italia Oggi 11.4.2016
Non esistono più sulla Terra luoghi sicuri per nascondere il proprio tesoretto. I Panama papers lo dimostrano. L’inchiesta giornalistica che ha fatto tremare i polsi a migliaia di persone è solo l’ultimo anello di una catena di eventi che vanno tutti nella stessa direzione. Il mondo è cambiato, i baluardi del segreto bancario stanno cadendo uno dopo l’altro, i paradisi fiscali spesso si trasformano in inferni, grazie anche a fughe di notizie che diventano sempre più frequenti e corpose.
Finire nella rete di una di queste pseudo inchieste ha come conseguenza immediata quella di dover rispondere al fisco delle somme che si presumono evase. Per i personaggi pubblici, a ciò si aggiunge anche un danno di immagine molto difficile da rimediare. Per i politici può significare dover cambiare mestiere. I rischi sono superiori ai benefici e soltanto i capitali di origine illecita ormai possono avere interesse a cercare nascondigli sempre più improbabili.
Le classiche triangolazioni fiscali che permettono alle aziende più strutturate di sfuggire alla gravosa tassazione dei paesi nei quali i capitali sono stati prodotti, sono naturalmente ancora possibili. Si può sempre, per esempio, far transitare le royalties imputabili a un marchio o un brevetto attraverso la classica società interposta irlandese per farli finire nella Llc (limited liability company) statunitense, minimizzando la tassazione e rendendo anonimo il beneficiario effettivo. Ma poi succedere sempre più spesso che un dipendente rancoroso o un evento imprevedibile mandi all’aria un piano tecnicamente perfetto.
Il danno è assicurato anche quando la fuga di notizie ha profili di illegalità, imprecisione, strumentalità. Come succede, peraltro, nell’inchiesta Panama papers: uno scoop giornalistico pilotato a livello mondiale da una fonte che però rimane sconosciuta e che nessun giornalista è in grado di verificare. Con anomalie clamorose: possibile che in 11 milioni di documenti relativi a 200 mila società non ci sia un nome statunitense, quando è noto a tutti che Panama è stata per decenni, dal punto di vista finanziario, una enclave americana? Evidentemente i file sono stati ripuliti. Da chi? Per quale scopo? Non solo: l’inchiesta è stata così deflagrante da far dimenticare alcuni dettagli che forse non sono noti al grande pubblico, ma che gli addetti ai lavori conoscono benissimo: per esempio il fatto che la gran parte delle posizioni (almeno quelle italiane) che stanno finendo nel tritacarne mediatico potrebbero essere dal punto di vista giuridico del tutto regolari: ItaliaOggi ha riportato qualche giorno fa la notizia che più della metà degli italiani con un conto panamense ha già regolarizzato la propria posizione con la voluntary disclosure. Molti altri potrebbero averlo fatto con i precedenti scudi fiscali. Altre irregolarità potrebbero essere prescritte. Ma ciò conta poco. Irrilevante anche il fatto che Panama sia uscita dalla black list dell’Ocse già nel luglio 2011. L’opinione pubblica non va troppo per il sottile: finire su una graticola mediatica come questa significa infangare l’immagine di una persona o un’azienda con il sospetto di evasione, fondi neri, riciclaggio e chissà cos’altro. Macchie molto difficili da lavare. È un gioco sporco, che nessuno è in grado di controllare fino in fondo. Anche le banche, che fino ad oggi erano uno strumento sempre presente nei trasferimenti di denaro verso le mete più strane, stanno cominciando a prendere le distanze, impaurite dalle regole antiriciclaggio sempre più severe. Tra poco, su queste piazze, ci resteranno solo i criminali e i loro prestanomi.
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