La politica estera di Obama, assalita dalla realtà, perde pezzi
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La strategia del contenimento dello Stato islamico fallisce e innesca una nuova ondata di consiglieri ed esperti che escono dall’Amministrazione sbattendo la porta
di Mattia Ferraresi | 02 Ottobre 2015 ore 10:47 Foglio
New York. Le manovre diplomatiche di Vladimir Putin da una posizione di forza e i bombardamenti selettivi dei caccia russi sulle aree dei ribelli siriani sostenuti dagli Stati Uniti segnano la fine della dottrina del contenimento militare dello Stato islamico immaginata da Barack Obama. Come ha spiegato all’Assemblea generale dell’Onu giusto qualche giorno fa, la dottrina in questione consiste nel fermare l’espansione del Califfato con l’aviazione mentre si prepara l’uscita di scena di Bashar el Assad. La Russia, naturalmente, ha altri obiettivi e altre priorità. Il fallimento della politica di Obama sta facendo vittime politiche all’interno dei ranghi della Sicurezza nazionale di Washington, e dopo la lunga lista di consiglieri ed esperti di politica mediorientale che si sono trovati dal lato sbagliato dell’indecifrabile strategia obamiana e hanno deciso (o sono stati costretti) di lasciare, ora è il turno degli esperti di Russia.
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Qualche giorno fa ha dato le dimissioni Evelyn Farkas, il più alto funzionario del Pentagono per quanto riguarda le relazioni fra l’esercito americano e quello russo. Farkas negli ultimi cinque anni ha sostenuto in tutti i modi l’espansione della Nato a est, ha lavorato per stringere i rapporti militari con la Georgia e per dare voce alle aspirazioni atlantiste del Montenegro; era un avvocato della risposta aggressiva all’invasione russa in Ucraina, e voleva dare armi pesanti all’esercito di Kiev, in attrito con la politica prudente della Casa Bianca. Per queste posizioni se n’è andato anche l’ex segretario della Difesa, Chuck Hagel. Quando la stessa politica aggressiva della Russia si è affermata sul campo anche in Siria, la posizione di Farkas è diventata insostenibile, e ha lasciato. Ora, scrive il quotidiano Politico citando un funzionario della Difesa, non sarà facile trovare un rimpiazzo all’altezza: “Non ci sono molti esperti di Europa in questa Amministrazione con un simile livello di esperienza”.
Non è che l’ultima tegola di un edificio della politica estera obamiana che cede sotto il peso della realtà. E’ uno scontro fra impostazioni ideologiche incompatibili – idealisti contro pragmatici, interventisti contro isolazionisti – in cui si nota però una certa tendenza dell’inner circle obamiano a decidere e tenere sotto controllo tutto. La parola “micromanagement” fa capolino ogni volta che un consigliere se ne va. L’inviato speciale per la lotta allo Stato islamico, il generale John Allen, lascerà a breve il posto, dopo un anno di lotte con la Casa Bianca, che non ha seguito le sue indicazioni e ha offerto risorse insufficienti per combattere il Califfato. Tre inviati speciali per la Siria del dipartimento di stato si sono alternati nel giro di due d’anni. Daniel Rubinstein, rimasto in carica per poco più di un anno, ha lasciato l’incarico dopo essersi scontrato con la scarsa volontà della Casa Bianca di offrire assistenza e fondi adeguati ai ribelli siriani: “Il cuore di Daniel era con la causa siriana, ma non è stato sostenuto da una politica coerente da trasmettere ai suoi interlocutori”, ha spiegato l’analista Oubai Shahbandar. Il suo successore, un altro diplomatico arabista di nome Michael Ratney, è il diplomatico meno invidiato al dipartimento di stato.
Tutti hanno fatto la fine di Frederic Hof, il rappresentante speciale per la Siria nominato da Hillary Clinton che se n’è andato sbattendo la porta nel 2012, quando è diventato chiaro che l’Amministrazione non sarebbe intervenuta per risolvere il conflitto. “Strategicamente sconcertante” è stato il suo commento quando la Casa Bianca non ha autorizzato l’attacco in Siria dopo la “oscenità morale” delle armi chimiche. La misura della confusione interna ai circoli della Sicurezza di Washington la dà il fatto che non sono soltanto gli interventisti delusi a essere stati sistematicamente allontanati.
Philip Gordon, diplomatico arrivato alla Casa Bianca nel 2013 nel ruolo di coordinatore degli affari di medio oriente, nord Africa e dell’area del Golfo, era un avvocato della prima ora del sostegno massiccio ai ribelli anti Assad, l’inascoltata linea promossa da Clinton e portata avanti, in tono minore, da John Kerry. Dopo pochi mesi alla Casa Bianca, Gordon si è reso conto, lo ha scritto di recente su Politico, che quella strategia era fallimentare, “non tanto per la mancanza di risorse, per errori di esecuzione o mancanza di volontà, ma per l’enormità della missione e l’assenza di reclute accettabili e efficaci”. Ora Gordon invoca un “ripensamento” dell’intera questione siriana, che in pratica significa sganciare la lotta allo Stato islamico dalla cacciata di Assad, ma lo fa con il cappello dell’esperto del Council on Foreign Relations, perché dalla Casa Bianca se n’è andato nel 2015. L’edificio della politica estera di Obama non crolla da un lato soltanto
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