L’argine friabile. In Spagna i socialisti reagiscono confusi alle bordate dei populisti di Podemos.
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Alleanze e gaffe. Campagna elettorale dei socialisti spagnoli, schiacciata tra il populismo e la cautela
di Redazione | 02 Agosto 2015 ore 06:03 Foglio
Roma. Pedro Sánchez, segretario del Partito socialista spagnolo, quest’anno è stato invitato alla riunione del gruppo Bilderberg, il club riservato dei potenti del mondo. Riconoscimento non male per uno che fino a tre anni fa insegnava Storia del pensiero economico in un’auletta di Madrid. Sánchez però ha gioito poco per il suo invito, perché appena annunciata la partecipazione sono iniziati i mormorii. Il Bilderberg genera tanti onori quanti sospetti, e gli elettori socialisti, imbambolati dalla retorica sulla casta propalata da Pablo Iglesias di Podemos, non hanno preso bene la notizia del loro giovane leader a brindare con i vampiri dell’alta finanza e gli oscuri burattinai delle trame planetarie. I siti complottisti sono esplosi. Così Sánchez prima ha accettato l’invito, poi ha cercato di ridurre la sua permanenza nell’immenso resort austriaco che ospita i grandi. Ma le regole sono ferree, al Bilderberg si resta quattro giorni e nessuno può scappare. Alla fine, qualche settimana fa, Sánchez ha annullato il suo invito, c’erano impegni più urgenti in agenda, come un imperdibile riunione del Pse a Budapest, ma la vera ragione, sussurrata da tutti e smentita ufficialmente, è che dentro al partito Sánchez sia stato sconsigliato di andare: se vai al Bilderberg, per tutta la campagna elettorale quelli di Podemos ti additeranno come servo dei potenti, e poco importa se altri grandi leader socialisti, da Zapatero a Felipe González, vi hanno partecipato in precedenza, quelli, hanno detto i socialisti secondo il sito Confidencial Digital, “erano altri tempi”.
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La rinuncia della partecipazione al Bilderberg da parte di Pedro Sánchez è la metafora perfetta della campagna elettorale dei socialisti spagnoli, schiacciata tra il populismo e la cautela. Fin dal motto, presentato da Sánchez un mese fa: “El cambio que une”, il cambiamento che unisce, ossimoro che cerca di tenere insieme in maniera un po’ sgangherata le esigenze di rottamazione e cambiamento espresse da Podemos con un sentimento di unione che vorrebbe essere rassicurante: proponiamo il cambiamento come Podemos, ma non allo stesso modo di Podemos; siamo una forza politica tradizionale come il Partito popolare, ma non così tradizionale.
Mentre il premier dei popolari Mariano Rajoy ha capito che per battere i populisti bisogna attaccarli lì dove sono deboli, cioè sui risultati, Pedro Sánchez si trova in una posizione molto più scomoda. Sono i suoi gli elettori che Podemos attrae, e Sánchez, politico di lungo corso ma che non ha mai ricoperto prima posizioni di responsabilità o di governo, non ha dalla sua risultati da sbandierare. Così la campagna elettorale dei socialisti per le elezioni di fine anno è il regno delle contraddizioni, degli equilibrismi tattici di chi subisce e ha paura di contrattaccare, di chi non riesce a dettare l’agenda e passa il tempo a parare le bordate degli avversari. Sánchez si spende spesso in grandi proclami contro l’avanzata del populismo, ma è palese che finora la strategia dei socialisti è stata quella di limitare con ogni mezzo le perdite a sinistra, e Sánchez è stato un argine friabile, quando non inesistente, davanti all’avanzata di Podemos: quando c’è stato da scegliere tra le forze moderate di Rajoy e quelle estremiste di Iglesias ha sempre scelto queste ultime. Dopo le elezioni regionali di maggio sono stati i socialisti a portare Podemos al governo di Madrid e di alcune regioni grazie ad accordi che Sánchez aveva giurato che non avrebbe fatto. Pensando al risultato incerto delle elezioni generali, non esclude nessuna alleanza tranne quella – definita da JP Morgan come il migliore risultato possibile – di grande coalizione con il Partito popolare.
Di recente Sánchez ha presentato la sua squadra per l’elaborazione del programma elettorale, e l’ha riempita di uomini del vecchio governo Zapatero per far capire che i socialisti possono ancora essere forza di governo, ma alla prima intervista il responsabile dell’Economia, l’ex ministro Jordi Sevilla, ha detto che gli investitori “non devono avere paura” del Psoe, ed è notevole il fatto che abbia sentito il bisogno di specificarlo. Così il cambiamento che unisce si muove a fasi alterne, il leader dei socialisti mette insieme iniziative fatte per rassicurare, come la grande bandiera spagnola esposta il giorno dell’inizio della campagna, a momenti in cui sembra cedere alla retorica del populismo, come quando pochi giorni fa ha proposto un “salario minimo vitale” che sembra una versione annacquata del reddito di cittadinanza già proposto da Podemos.
Da qualche settimana, il partito di Iglesias è in grave calo nei sondaggi, ma nessuno ne attribuisce il merito al Psoe. Sono piuttosto gli effetti delle cattive prove di governo date dai sindaci populisti appena eletti, oltre al fatto che la crisi greca ha ricordato agli spagnoli che Iglesias e Tsipras sono migliori amici. Il calo di Podemos ha fatto crescere le quotazioni dei socialisti, ma anche questo risultato, come quasi tutto finora, Sánchez l’ha
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