Dopo un giorno di esitazioni, Hamas ha dichiarato di rifiutare anche l’ultima proposta di cessate il fuoco dell’inviato americano Steve Witkoff.
Ugo Volli 1 Giugno 2025 alle 17:22 ilriformista.it lettura2’
Dopo un giorno di esitazioni, Hamas ha dichiarato di rifiutare anche l’ultima proposta di cessate il fuoco dell’inviato americano Steve Witkoff. Era un’offerta molto favorevole per loro. Contro il rilascio della metà dei rapiti (10 vivi e 18 morti), gli Usa garantivano 60 giorni di tregua, con il blocco delle attività militari israeliane (inclusa la ricognizione aerea per 10 ore al giorno); il ritiro delle forze israeliane sugli assi di Filadelfia (al confine dell’Egitto), Netzarim (al centro della Striscia) e al confine settentrionale (rinunciando cioè alle zone occupate in questi mesi); il ripristino della distribuzione degli aiuti attraverso gli organismi internazionali (il che significa farli controllare da Hamas, a differenza di quel che è avvenuto negli ultimi giorni, con la consegna diretta alla popolazione che saltava il taglieggiamento terrorista); l’inizio delle trattative finali per la pace condotte dai soliti mediatori filo–Hamas, cioè Egitto e Qatar, con la garanzia americana sulla loro “serietà”.
Sacrifici gravi per Israele
Si trattava di sacrifici gravi per Israele, che li ha accettati solo per evitare rotture con Trump. Erano chiaramente pensati per essere attrattivi per Hamas, permettendogli in sostanza di recuperare parte delle perdite subite. Ma Hamas ha rifiutato l’accordo, com’era accaduto per decine di proposte israeliane e americane, prima degli inviati di Biden e poi di Trump. Si potrebbe ripetere a questo proposito il vecchio giudizio di Golda Meir: non perdono mai l’occasione di perdere un’occasione.
Le ragioni del masochismo
Bisogna capire le ragioni di questo masochismo. La prima è la retorica musulmana del martirio: per la tradizione islamica incarnata da Hamas, mille volte meglio morire combattendo i nemici della fede che vivere pacificamente accanto a loro. Ciò rende impossibile una vera pace e accettabili (anzi, desiderabili) i sacrifici imposti anche alla popolazione civile, come Hamas ha spesso dichiarato. La seconda ragione è che l’esistenza stessa di Hamas dipende non da una vittoria reale sul campo (impossibile in partenza) ma dall’aura di eroismo e dalla vittoria di immagine che ogni accordo intaccherebbe. La terza ragione è che i rapiti sono comunque un’assicurazione sulla vita per Hamas, e soprattutto un’arma per la strategia di piegare la resistenza israeliana e occidentale e per rompere il blocco sociale che sostiene lo Stato ebraico (questo è il senso fondamentale del terrorismo, che ha ottenuto notevoli successi in Europa, negli Usa, ma anche in certi settori della società israeliana). Infine c’è il rifiuto dell’Iran, che dal conflitto a Gaza ricava uno schermo di protezione militare e mediatico. Insomma, il minimo che Hamas ritiene di dover ottenere dalla guerra è la vittoria che consiste nel mantenere le armi e il controllo di Gaza, magari sotto mentite spoglie. I terroristi islamici hanno imparato la lezione di Mao: nella guerra asimmetrica di lunga durata, i guerriglieri vincono se riescono a sopravvivere mantenendo anche una frazione delle loro forze.
Gli attacchi
Questo minimo però è molto di più di quel che Israele può concedere, perché è la premessa del progetto terrorista di rinnovare gli attacchi o – per parafrasare Che Guevara – “creare due, tre, molti 7 ottobre”. Israele deve distruggere Hamas e svuotare “l’acqua” (la popolazione radicalizzata) in cui “il guerrigliero nuota come un pesce” (Mao). Ci sta riuscendo, ha solo bisogno di un po’ di tempo. Per questo si intensificano gli attacchi mediatici, politici e giudiziari degli alleati del terrorismo in Occidente, consapevoli o meno.