I compiti a casa sulle banche non finiscono mai. Né per Renzi né per Draghi
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Parte “Atlante”, fondo italiano per le ricapitalizzazioni. E in Bce si fa un po’ di autocritica sull’effetto stress test. Vertice a Via XX Settembre
di Marco Valerio Lo Prete | 12 Aprile 2016 Foglio
Roma. Nel tardo pomeriggio di ieri, al ministero dell’Economia, era ampia la rappresentanza dei banchieri italiani: tra gli altri, Carlo Messina (consigliere delegato di Intesa Sanpaolo), Pier Francesco Saviotti (ad Banco Popolare), Giuseppe Castagna (ad Bpm), Andrea Munari (ad Bnl), Alessandro Vandelli (ad Bper) e Adolfo Bizzocchi (dg Credem). D’altronde era il momento di definire i dettagli della “soluzione di sistema” pensata per far sbocciare definitivamente la cosiddetta primavera bancaria italiana, un fondo chiamato a partecipare agli aumenti di capitale degli istituti di credito in difficoltà e ad acquistare sofferenze. “Atlante” è il nome del veicolo nato all’interno di Quaestio Sgr con la collaborazione di banche, fondazioni, enti di previdenza, compagnie assicurative e Cassa depositi e prestiti. In linea teorica si tratta di replicare, in ritardo di quasi quattro anni e in tempi molto più ristretti, quanto accaduto con la bad bank spagnola: in quel caso i fondi pubblici europei aiutarono la ricapitalizzazione di alcuni istituti di credito, dopodiché questi ultimi cedettero i loro crediti in sofferenza a un veicolo. Nel caso italiano, oltre alla mancanza di fondi europei, anche il fattore tempo si è messo a complicare le cose: il veicolo deve essere pronto in fretta perché le condizioni di mercato non paiono favorevoli agli aumenti di capitale in arrivo, come quello della Popolare di Vicenza (il prossimo 18 aprile, con Unicredit a fare da “garante”), poi di Veneto Banca (Intesa “garante”), infine del Banco Popolare che deve raccogliere un miliardo prima della fusione con Bpm.
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Proprio a questo indicatore, all’inizio del 2014, guardavano con attenzione anche dagli uffici della Banca centrale europea a Francoforte. L’obiettivo primario della valutazione approfondita (giornalisticamente detta “stress test”) condotta in quell’anno dalla Bce sulle principali banche europee, fra cui 15 italiane, era infatti fare chiarezza sui bilanci degli istituti. In questo modo, si ripeteva, la Bce avrebbe contribuito a riallineare la percezione dei potenziali investitori all’effettivo stato di salute delle banche.
A un anno e mezzo di distanza da quel mese di ottobre in cui furono pubblicati i risultati dello stress test, ai piani alti della Bce guardano un po’ sconsolati a quel rapporto, il price to book ratio: perché è vero che il valore ha ricominciato a salire per l’intera Eurozona subito dopo lo stress test, avvicinandosi all’unità per intenderci, ma questo aumento – osservano all’Eurotower – non è stato rapido e robusto come da attese. Il p/b delle banche italiane si aggirava attorno all’unità nella primavera del 2014, è sceso fino a 0,6 in prossimità dello stress test e quindi è tornato a superare 0,9 nella primavera dello scorso anno. Poi il calo, e oggi quel rapporto così importante è attorno a 0,5. Addirittura peggio fanno le banche tedesche, prezzate oggi a 0,3. C’entra la congiuntura globale che è tornata a incupirsi, certo, ma forse il caso tedesco e quello italiano confermano che hanno avuto un peso anche il mancato focus della Bce su finanza e derivati in pancia alle banche, e la resistenza opposta da certi istituti di fronte alla cura ricostituente che i risultati dello stress test consigliavano.
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