Soldi, fede e ipocrisia: l’irresistibile invasione della finanza islamica
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Nonostante i problemi degli ultimi anni, il settore continua a crescere. Aspira a conquistare il mondo, ma più si adatta alle forme della finanza convenzionale e più si trasforma
di Dario Ronzoni 9 Dicembre 2015 - 08:15 Linkiesta
Soldi e fede. Può essere riassunto così il meeting del World Islamic Banking, che si tiene ogni anno a Manama, capitale del Bahrein. Prima delle conferenze, c’è la recitazione del Corano. Poi si discute delle prospettive di crescita e dei problemi. E, tra un caffè e l’altro, si parla d’affari.
A Manama sfilano i rappresentanti dei fondi e delle banche del Golfo, portatori di kefiah e dishdasha – ma soprattutto di petrodollari. Ci sono manager delle banche malesi e sudanesi e, in generale, da tutti territori della Umma (la comunità islamica). Si incontrano analisti della Thomson Reuters, lobbisti, consulenti: tutti a discutere sul sistema bancario islamico, alternativo a quello tradizionale perché si basa sui dettami della sharia. Dal mondo occidentale, a sua volta, arrivano garanzie e promesse per nuovi mercati, consulenze e titoli.
Il fatto che tutto ciò avvenga in Bahrein, non è un caso. L’arcipelago, minuscolo, del Golfo Persico, cresciuto con i soldi del petrolio e collegato con un sistema di ponti all’Arabia Saudita, si distingue per essere una delle zone più “occidentalizzate” dell’area. Si può bere, si può uscire a ballare, ed è uno dei luoghi di svago preferiti della ricca gioventù saudita. Almeno a dicembre, con i suoi 26 gradi già alle sei del mattino, può diventare un punto di incontro.
Non solo: una delle prime banche islamiche è nata nel Bahrein nel 1979, in contemporanea con la rivoluzione iraniana. Nel 2015 il Paese conta ben 32 istituzioni bancarie islamiche (il doppio, per capirsi, dell’Arabia Saudita) ed è da anni sede dei più importanti organismi internazionali per lo sviluppo della finanza islamica nel mondo: l’Aaoifi (Accounting and Auditing Organization for Financial Institutions), che si occupa di promuovere standard unici per i principi contabili e di governance per le banche che seguono la sharia; il Liquidity Management Centre (Lmc), che promuove un mercato interbancario islamico; l’Iifm (International Islamic Financial Market), per lo sviluppo di un mercato di capitali del mondo islamico.
Sullo sfondo, resta la condizione di semi-schiavitù dei lavoratori immigrati, su cui si poggia il funzionamento della società, una rivolta soffocata nel sangue nel 2011 con l’aiuto delle truppe saudite e degli emirati arabi, varie forme di torture e interrogatori, un unico partito al governo. E, verso sera, un traffico infernale. Ma si è qui per parlare di soldi, e di Islam.
I principi della finanza islamica
«Per capire la finanza islamica bisogna pensare che ha tutto a che fare con la fede», spiega un banchiere indiano, una sera fuori dal convegno. «Prima il mio lavoro, in una banca normale, era imbrogliare le persone. Ora che sono in una banca islamica le aiuto. È tutto diverso. E sono a posto anche con la mia religione». Il fatto che, mentre lo dice, stia bevendo del vino, è un dettaglio. Il principio, però, è quello. L’Islam a differenza del cristianesimo, fornisce indicazioni precise sulla condotta negli affari. Punto essenziale è la proibizione del prestito a interesse, che viene considerato usura (riba’), perché, «come spiega il Corano, sura II, 275, “Allah ha permesso la compravendita ma vietato la riba’». È impossibile che ci sia guadagno senza rischio, che è proprio ciò che accade con l’interesse. È su questo pilastro che si costruisce tutto il sistema islamico.
Ma ci sono altri requisiti: il rischio, ad esempio, non deve essere eccessivo, altrimenti è gharar (incertezza), ed è proibito, visto che ogni contratto o transazione deve essere libero da informazioni incomplete e deve riguardare oggetti la cui incertezza non è intrinseca (eventi aleatori). In più, è proibito il maysir, cioè la “scommessa” o “speculazione”, se non è sostenuto da analisi adeguata per fare predizioni. Solo in quest’ultimo caso è conforme alla sharia.
La legge islamica impedisce qualsiasi operazione che abbia a che fare con il maiale, la droga, il fumo, l’alcol, la pornografia e le armi. Tutte cose haram, attività che devono mancare nei portafogli di banche e fondi islamici.
Questi limiti hanno avuto (e hanno tuttora) ripercussioni importanti. Concentrano la gran parte degli investimenti sull’economia reale, favorendo (in particolare nei Paesi del Golfo) la crescita del settore edilizio. Ogni operazione deve avere una finalità precisa, a beneficio della comunità. Questo implica che la maggior parte delle attività di un istituto finanziario islamico non sia composta da progetti di lungo periodo. In ogni caso, si preferiscono operazioni di risk-sharing piuttosto che di risk-transfer. Se poi le banche islamiche siano più o meno stabili rispetto a una banca tradizionale, è materia di dibattito.
L’odore dei soldi
Secondo le stime della Thomson Reuters, nel 2014, la finanza islamica, nel suo totale, vale 1,8 trilioni di dollari. Ha registrato, sull’anno precedente, un tasso di crescita del 9,4%. Per il 2020 le stime parlano di 3,24 trilioni, con un tasso di crescita dell’80%. Al boom delle cifre corrisponde una diffusione del numero delle istituzioni coinvolte: le banche islamiche, nel mondo, sono 436, le assicurazioni (takaful) 308. In generale, le istituzioni totali sono 1.143. Il grosso si concentra nell’area della Malesia, i cui asset “islamici” toccano i 415mila milioni di dollari, e dell’Arabia Saudita (412mila). Poi c’è l’Iran, i cui 345mila milioni derivano, in sostanza, dagli asset bancari. È un mercato in crescita, che attrae l’attenzione e l’interesse (questo, chissà perché, ammesso dalla sharia) degli investitori occidentali. Perché è vero, bisogna partire dalla fede. Ma come spiega a Linkiesta il rappresentante della Ddcap, società di servizi finanziari con base a Londra, «si arriva sempre a quest’altra cosa»: e sfrega indice e pollice, nel gesto universale che indica, a ogni latitudine, il denaro.
Soldi e fede, appunto. Si spiega così la presenza del Kazakhistan, la cui banca centrale, dopo anni, ha approntato (anche grazie alla consulenza di esperti del Bahrein e della Malesia) tutta la struttura necessaria per un sistema bancario islamico. «Una opportunità vantaggiosa per tutti», spiega dai suoi due metri di altezza il vice-governatore kazako Nurlan Kussainov, autore anche dell’ingresso di Astana nel Wto: «Siamo al centro della “via della seta”, tra Cina e Russia. Facciamo da ponte con l’Europa. È un mercato in crescita importante». In più, «è un Paese musulmano, con circa 12 milioni di credenti», destinati «ad aumentare nel futuro». Che si traduce in una ricca serie di conti correnti, depositi, flussi di denaro destinati agli investimenti.
Lo stesso vale per il Sudan, che nonostante l’arretratezza della struttura bancaria e la segregazione dal resto del mondo, offre una popolazione in crescita e un terreno di caccia quasi incolto. Ma quello che più colpisce è il Canada. «Paese con il sistema bancario più sicuro», spiega Shaima Hasan, della Thomson Reuters. È «la chiave per il mondo nordamericano», anche perché conta «una popolazione islamica di circa un milione e mezzo di fedeli. La componente della popolazione che cresce di più». Ora che punta a diventare «lo hub islamico del nord America», sembra molto lontano quel censimento del 1867, che registrava, in tutto il Canada, l’esistenza di solo 13 musulmani.
Secondo Janet Ecker, ex ministro delle Finanze canadese e figura di spicco del Partito conservatore, ora Ceo e presidente del Toronto Financial Services Alliace, «è un momento interessante», e che coinvolge tutti, non solo i musulmani: «La finanza islamica ha un lato di responsabilità sociale molto importante. Questo può attirare anche chi appartiene ad altre fedi, o non crede». Anche se certo, «visto quello che sta succedendo, occorre stare attenti, perché quella parola può fare paura. Potremmo cambiargli il nome». Come no. Peccato che “islamico” non sia proprio un dettaglio, e che “quello che sta succedendo” lo sanno tutti, ma nessuno ne parla.
Nascosto nelle sale del convegno, dove si tratta di prospettive macroeconomiche, di opportunità e iniziative, oltre che – perfino – dell’ingresso delle donne musulmane nel mondo del lavoro (la sharia lo permette, pare, purché velate e in ambienti diversi da quelli degli uomini) c’è un fantasma. Il terrorismo non è il benvenuto. Qualcuno lo cita, è necessario. Ad agosto una bomba, scoppiata nel sud del Bahrein, aveva ucciso un poliziotto e proprio in quei giorni, negli Usa, a San Bernardino, una coppia commetteva una strage nel nome dell’Islam. Per quanto riguarda Parigi, è come se non esistesse. Eppure è sempre più evidente il ruolo di primo piano delle monarchie del Golfo nel finanziamento dell’Isis, con tanto di forniture militari, insieme alla complicità di altri Paesi occidentali. Qui si parla di finanza e religione, va bene, ma il traffico d’armi va proprio contro i dettami dell’Islam. «È così», continua il banchiere indiano, già al quarto bicchiere. «Ma questo è il Medioriente»
Il petrolio e i sukuk valgono più del terrore
Tutti sembrano più preoccupati dalla crisi dei prezzi del petrolio, che ha colpito l’intera economia islamica. Un indicatore della situazione è, ad esempio, l’andamento dei sukuk, che negli ultimi anni è crollato. I sukuk sono una sorta di bond islamico, spesso decantato come il prodotto finanziario destinato a trasportare la finanza islamica nei mercati di tutto il mondo. Eppure, al momento, rappresenta ancora una nicchia.
Nasce in Malesia con il preciso intento di creare il parente islamico dell’obbligazione, purché privo del tasso di interesse (che, va ricordato, è riba’). La proibizione viene aggirata costruendo certificati che rappresentano quote di proprietà di un asset tangibile, di un usufrutto (è il caso più frequente) o di un progetto. Come i bond, i sukuk hanno una scadenza e generano un flusso finanziario, che deriva non dagli interessi ma dai profitti dell’attività finanziata, di cui si condividono, in teoria, anche i rischi. In questo modo si salva il lato “sharia”, ma soprattutto, si crea un prodotto adatto a tutti i mercati.
Tanto è vero che la moda dei sukuk è arrivata anche in Occidente: il governo inglese è stato il primo a emettere sukuk sovrani, per 200 milioni di sterline e con scadenza nel 2019. Segue il Lussemburgo, nell’ottobre dello stesso anno (un titolo da 200 milioni di euro, per cinque anni). Poco prima c’era stato anche il lancio dei sukuk di Goldman Sachs, 500 milioni di dollari per cinque anni. L’entusiasmo era grande.
Eppure, di fronte alla crisi di liquidità che ha colpito i Paesi produttori di petrolio (che, si pensava, sarebbero ricorsi ai sukuk per compensare le minori entrate), i sukuk emessi nel 2015 sono calati. Nei primi nove mesi dell’anno c’è stata una diminuzione del 38%. Dal valore aggregato di 80 miliardi di dollari dello stesso periodo nel 2014 (che poi ha chiuso con 101 miliardi) si è scesi a 48 miliardi, ed è sicuro che non si arriverà a 100. Colpa di una decisione della Banca Centrale della Malesia, che ha bloccato le emissioni dei sukuk a breve termine, e della scarsità di altri attori sul mercato. A questo si aggiunge il fatto che, per i Paesi del Golfo le strutture di sukuk conformi alla sharia sono in numero minore rispetto agli altri Paesi.
È uno dei problemi principali, e – pare – dei più temuti. L’Islam, non avendo – a differenza del Cattolicesimo – un’autorità centrale per le questioni religiose, non possiede, di conseguenza, uno standard unico per la valutazione della conformità dei prodotti finanziari ai principi della sharia. Decidere se un bond obbedisca alle leggi del Corano è, ogni volta, un’impresa. Per questo ogni istituto finanziario ha, per obbligo, un proprio board di esperti in sharia (più o meno l’equivalente di un comitato etico), ciascuno con propri parametri e giudizi. Questo ha provocato diversi problemi: ad esempio, uno stesso prodotto finanziario poteva essere accettato da una banca, ma non da un’altra, anche all’interno dello stesso Paese, perché i criteri di valutazione di “islamicità” utilizzati dal board erano diversi, e di conseguenza erano diverse le conclusioni. A questo si aggiungano la scarsa preparazione (almeno in passato) dei maestri di sharia in materie finanziarie, il fatto che potessero appartenere a più board nello stesso tempo (con rischio di conflitto di interessi) e la corruttibilità (il sharia shopping). Risultato: la totale confusione, la mancanza di standard, la disarmonia.
Il caos è grande, la situazione è ottima
È facile, però, che in tutta questa confusione, il prodotto finanziario somigli sempre più a quello convenzionale. Nel caos delle scuole interpretative del Corano diventa possibile aggirare la formula “sharia compliant”, a meno che ci siano decisioni più o meno rigide, che però in quel caso assumono un colore più politico che religioso. La pensano così anche i non addetti ai lavori. Come spiegava l’uomo della strada, un antropologo bahreinita ma di origine saudita, incontrato fuori dal convegno, «la sensazione è che prima facciano il prodotto, e poi cerchino di farlo sembrare islamico». Perché delle banche non «ci si deve fidare».
Certo, c’è il trucco. Ma non c’è l’inganno. Perché la finanza esporta davvero la sharia nel mondo, ma nel frattempo la trasforma, la modifica. E per il momento, quella adottata sembra molto market friendly. Perché tra soldi e fede si è già capito chi vince.
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