Il mercato è un reato?. Che cosa c’è oltre al tintinnar di manette sulle antenne di Rai Way
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Come si fa in Italia a forgiare grandi aggregazioni di mercato senza inciampare nei ceppi dell’automatismo giudiziario che ha il colore giallofiammante della Guardia di Finanza e il sigillo delle procure militanti?
di Alessandro Giuli | 06 Maggio 2015 ore 17:07
Come si fa in Italia a forgiare grandi aggregazioni di mercato senza inciampare nei ceppi dell’automatismo giudiziario che ha il colore giallofiammante della Guardia di Finanza e il sigillo delle procure militanti? Posso immaginare la risposta del cda di Ei Towers, indagato in blocco (aggiotaggio) per la nota Opas su Rai Way, subito sfumata per l’interdizione politica del governo e quella tecnica di Consob e Antitrust. Porrei invece la domanda al così detto mercato, lì dove si produce ricchezza sulla base della credibilità d’una proposta industriale. Ma il mercato in fondo ha già risposto, come mercoledì evidenziava Repubblica (non esattamente il quotidiano più ostile ai magistrati) in un articolo esemplare di Ettore Livini. Il tentativo di smuovere “la foresta pietrificata” delle telecomunicazioni attraverso una mossa (aggressiva, d’accordo) di casa Berlusconi per il “decollo di un operatore unico di settore” è stato premiato con un rialzo del 20 per cento circa sui titoli dell’azienda concupiscente e di quella concupita. Il fatto che Ray Way non fosse scalabile oltre il 49 per cento, pare di capire leggendo Rep., rileva fino a un certo punto: il matrimonio prima o poi si farà, magari con l’azienda di Stato a fare da “predatrice” e non da preda, e forse sarà poligamico poiché altri soggetti sono stati sondati entro il perimetro di un girotondo industriale nel quale i negoziati amichevoli non si sono mai interrotti, semmai si sono allargati.
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Tanto basta ai pm di Milano Francesco Greco e Adriano Scudieri per indovinare un dolo nella dirigenza di Ei Towers, la controllata Mediaset che avrebbe deliberatamente provocato una alterazione nel prezzo di strumenti finanziari per guadagnarci quattrini (il rialzo in Borsa di cui sopra), e per aprire il registro degli indagati avviando perquisizioni a catinelle.
Tanto basta a noi per sospettare che simili iniziative giudiziarie siano nella migliore delle ipotesi un fossile debilitante, ostativo e intimidatorio per qualunque operazione di mercato che in Italia oltrepassi la soglia del baratto. Potremmo buttarla in politica, c’è chi lo ha già fatto e forse pour cause, lamentando il solito e manettaro riflesso condizionato che squilla quando l’uomo nero dello storytelling è o deve essere il Cav.
Ma lo spettro della sconsolazione si può dilatare fino a scorgervi un problema più profondo e provincialissimo al tempo stesso. C’è di mezzo l’obbligatorietà dell’azione penale, certo, che troppo spesso dalle nostre parti è il paravento dietro il quale s’acquatta l’esercizio forsennato della discrezionalità inquisitoria (è sufficiente un esposto di consumatori autoproclamati e organizzati). C’è però anche qualcosa di più, qualcosa di culturale perfino e che tocca le condizioni in cui si possa o no fare impresa, in Italia, per fuoriuscire da un’economia di scala mobilitando ingenti risorse finanziarie. Se è vero, come vuole il senso comune e come recita il dettato delle grandi istituzioni internazionali, a cominciare dalla Bce di Mario Draghi, che la globalizzazione esige e deve incoraggiare aggregazioni industriali e fusioni bancarie (vedi il recente provvedimento del governo sulle Popolari); se è vero che per non morire di capitalismo claustrofobico e tribale occorre ingigantirsi, diventare competitivi e non soltanto contendibili, sempre che non si sia già privi di degnazione da parte delle corazzate straniere; se è vero tutto ciò, allora c’è ancora molto da fare, molto da riformare nel nostro strano reifen Kapitalismus, il capitalismo maturo in cui un’azienda privata di successo prova a salire sulle antenne della Rai, smuove ricchezza ma si ritrova la Guardia di Finanza in casa e i campioni di Stato precettati (Cdp e F2I). E c’è parecchio da “disintermediare” – che significa anche asfaltare, adesso va di moda dire così – nel Codice penale e nel sistema regolatorio di un paese (qui è il caso di dire paese) in cui, quando il mercato esonda dalla dimensione rionale, scattano meccanismi automatici di deterrenza persecutoria. Allora o questo è un malanno da guarire oppure è sbagliato lo storytelling e quindi dobbiamo sederci tutti a un tavolino con Serge Latouche e richiamare fra i vivi lo spettro della decrescita felice. Io ci starei pure, ma era questo che volevamo?