Ora si intrecciano le mire monetarie di Pechino e quelle finanziarie di Berlino
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La svalutazione dello yuan dopo il suo ingresso nel gotha del Fmi. La corsa a rimpiazzare il dollaro passa per Francoforte
foto LaPresse
di Marco Valerio Lo Prete | 11 Ottobre 2016 ore 06:15 Foglio
Roma. La festa è finita e la Cina è tornata a scuotere gli equilibri monetari globali. Ieri infatti si è conclusa una settimana di chiusura dei mercati locali iniziata lo scorso 1° ottobre, quando sono stati avviati i festeggiamenti dell’anniversario di quel 1° ottobre 1949 in cui la Repubblica popolare venne solennemente fondata con una cerimonia a Piazza Tienanmen.
E la prima notizia post apertura rimbalzata sui mercati occidentali è stata la seguente: la Banca centrale cinese ha deciso di abbassare il cambio di riferimento tra yuan (o renminbi che dir si voglia) e dollaro americano, fino a 6,7008, riportando la propria valuta a un valore così basso che non si vedeva da un quinquennio. L’ultima notizia pre-festività, poi, era stata altrettanto dirompente: lo yuan, lo scorso 1° ottobre, è entrato infatti a pieno titolo nel paniere delle valute globali di riserva scelte dal Fondo monetario internazionale, i cosiddetti Diritti speciali di prelievo. Ieri la People’s Bank of China ha rassicurato i partner esteri, a partire dagli Stati Uniti che più degli altri temono una svalutazione da parte di Pechino: consapevoli del nuovo status internazionale della valuta cinese, le autorità della grande potenza asiatica hanno garantito infatti che “non ci sono le basi per un deprezzamento dello yuan sul lungo termine”.
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Ciò a cui stiamo assistendo – secondo la ricostruzione di analisti indipendenti e fonti di una importante Banca centrale dell’Unione europea sentiti dal Foglio – sono le scosse di assestamento di una strategia di lungo termine che vede Pechino impegnata a trasformare lo yuan in una valuta di riserva mondiale, in competizione con il dollaro americano.
Di scosse si tratta, perché le autorità cinesi seguono un sentiero del tutto originale, per tentativi. Una valuta diventa “di riserva”, infatti, quando viene detenuta in quantità significative da Banche centrali e operatori privati con passaporto diverso da quello di chi batte moneta: in questo modo la valuta può essere usata da tali soggetti per operazioni di cambio o altro. Oggi nei portafogli mondiali ci sono soprattutto dollari americani, euro e poi, in quantità minore, sterline inglesi e franchi svizzeri. Lo status in questione ha diversi vantaggi, ma impone alcuni vincoli. Il controllo della politica monetaria su una valuta di riserva diffusa in tutto il pianeta, per esempio, diventa per definizione più blando. Anche per tale ragione, per decenni, paesi come la Germania e il Giappone – mercantilisti, li chiama qualcuno, o comunque con una posizione estera positiva – hanno tentato di evitare che la loro moneta acquisisse uno status internazionale.
Pechino comunque da qualche tempo non nasconde più di voler fare concorrenza al dollaro con il proprio yuan. Per riuscirci, innanzitutto, deve convincere i suoi partner internazionali che lo yuan non fluttuerà troppo in ragione di future crisi generate da instabilità politica ed economica a livello domestico, e allo stesso tempo deve garantire che con quella valuta si possano – volendolo – comprare beni e servizi in quantità, oppure alimentare investimenti nel paese. E’ quanto sono finora riusciti a fare gli americani, seppure con qualche eccezione, visto che per esempio i cinesi difficilmente riescono ad avere carta bianca su grandi investimenti nella land of the free. Questo processo di moral suasion made in China su scala planetaria passa anche per l’Europa e per Francoforte in particolare. La Germania infatti, oltre a essere la più grande economia europea, il primo esportatore del continente e il principale creditore dell’area, è già oggi il paese continentale più legato alla finanza cinese. Il tentativo di Francoforte di candidarsi a succedere a Londra come prima piazza finanziaria europea post Brexit, sta soltanto accelerando questo processo di apertura alle mire monetarie dell’ex Impero celeste.
Per avere un’idea del peso finanziario di Francoforte, si prendano alcuni dati pubblicati ieri dal Financial Times: il 70 per cento delle prime 10 banche europee e il 60 per cento delle prime 10 società assicurative ha un quartiere generale o una sussidiaria regolamentata in Germania. Il Lussemburgo, secondo classificato per attrattività degli istituti di credito internazionali, è fermo al 50 per cento. Ma tra le 155 banche presenti a Francoforte con loro sedi operative, da qualche tempo figurano anche quelle cinesi: la Banca centrale di Pechino ha la sua sede europea lì, così come le prime cinque banche commerciali del paese asiatico. Secondo un rapporto del think tank Omfif, “nel 2014 Francoforte è stata scelta come sede della prima clearing house per la valuta cinese fuori dall’Asia”, dopo che alcuni istituti tedeschi – sempre primi rispetto ai concorrenti del Vecchio continente – erano già entrati nella lista dei “Renminbi qualified foreign institutional investors” che li autorizza a negoziare (essenzialmente comprare e vendere) yuan. Ancora: “Francoforte offre un’ampia gamma di prodotti e servizi in renminbi alle società basate nell’Eurozona – si legge sempre nel bollettino dell’Omfif – a condizione che la banca di questi gruppi abbia un conto presso la filiale tedesca della Bank of China (prima banca commerciale cinese, ndr). (…) L’accesso alla liquidità in renminbi facilita il commercio tra società cinesi e società europee, eliminando i rischi valutari, i ritardi temporali e i costi di cambio. La quota di scambi commerciali Eurozona-Cina denominati in renminbi è adesso pari al 20 per cento del totale e dovrebbe raddoppiare nei prossimi anni”. Visti da Pechino, questi compiuti sul suolo tedesco sono tutti passi verso un’ulteriore legittimazione esterna della valuta nazionale.
Perché scegliere proprio Francoforte e non un’altra piazza europea? La Germania, innanzitutto, è il paese dell’Eurozona meglio piazzato (15esimo posto) nella classifica della Banca mondiale sulla facilità con cui è possibile fare impresa. I legami di Pechino con la Germania, inoltre, sono forti a tutti i livelli. La Cina è la prima fonte di importazioni verso il paese (91,6 miliardi) e la quinta maggiore destinazione delle esportazioni tedesche (71,4 miliardi di beni nel 2015), per un giro complessivo d’affari di 163 miliardi di euro (poco meno dei 173 miliardi da primato degli Stati Uniti e decisamente più dei 107 miliardi dell’Italia). Inoltre, come ripetono le stesse autorità tedesche locali ai loro partner orientali, Francoforte ospita già la Banca centrale europea, il Single Supervisory Mechanism, lo European Systemic Risk Board, la European Insurance and Occupational Pensions Authority, la Bundesbank e via elencando. “La vicinanza logistica alla Bce evidentemente fa gola. Così come la possibilità di creare network con le altre banche commerciali che sono a Francoforte per la stessa ragione”, dice un operatore al Foglio.
E’ sufficiente entrare nel paniere ufficiale del Fmi e mettere un piede finanziario nell’Eurozona per far decollare lo yuan come valuta di riserva mondiale? Evidentemente no, anche se aiuta. Per rendere appetibile la propria valuta, la Cina – come dimostrato dagli accordi di cui sopra con un numero crescente di istituti privati tedeschi e non solo – sta accrescendo la fungibilità dello yuan e sta favorendo una maggiore libertà di circolazione dei capitali, ma senza eccedere, visti i contraccolpi che quella libertà hanno generato in altre aree del pianeta. Pechino inoltre, per favorire la diffusione dello yuan, dovrà dimostrare di essere più aperta agli investimenti esteri. Proprio domenica il Partito comunista cinese ha fatto sapere di avere in cantiere nuove forme di sburocratizzazione e liberalizzazione per attirare i capitali stranieri che negli ultimi mesi sono diventati titubanti per la frenata dell’economia e per la nuova ventata nazionalista e protezionistica che ha investito anche la Cina. Ma sono tutti passi, quelli da compiere in nome della globalizzazione dello yuan, che non potranno non avere un impatto anche sul regime politico della potenza manifatturiera del pianeta.
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