La sibilla Yellen

Messaggi ambigui, la timoniera della Fed sotto attacco. E anche Draghi in Europa è più solo. Stampare moneta non basta per superare la crisi

Janet Yellen, presidente della Federal reserve americana (all’ultimo anno di mandato), e Mario Draghi, numero uno della Banca centrale europea

di Stefano Cingolani | 05 Settembre 2016 ore 06:09 Foglio

Nel novembre 1963 Guido Carli ricevette nel suo ufficio una lettera da Borgo Bainsizza, in provincia di Latina: “Gentile Signor Governatore, Sono una povera ragazza trentaduenne. Faccio da assistente ai miei vecchi genitori, ora sono sola con mia mamma 75enne perché mio padre è deceduto, dopo tre lunghi anni di degenza a letto, lasciandoci in un desolato dolore e più povere che mai… Io mi vergogno ma vorrei chiederLe se non Le dispiace di essere così buono da poterci mandare qualche soldo per aiutarci… So che la Banca d’Italia può stampare una certa quantità di denaro, dunque se Lei ha un vero cuore nel petto, non potrebbe far stampare due Milioni in più e mandarmeli?”. Carli conservò quella missiva per trent’anni e la rese nota nelle sue memorie (“Cinquant’anni di vita italiana” a cura di Paolo Peluffo, Laterza editore). Era una sorta di memento non solo sulle contraddizioni del miracolo italiano, ma su come la gente comune vede il mestiere del banchiere centrale.

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La povera ragazza di Latina non poteva immaginare di aver anticipato quella che gli economisti chiamano “helicopter money”, cioè denaro lanciato da un metaforico elicottero direttamente nelle tasche dei consumatori.

Carli, invece, sapeva bene che “quella sussurrata da Mefistofele è la tentazione che tutti i principi, tutti i potenti della storia hanno avuto”. Oggi sta accadendo esattamente lo stesso. La vera differenza è che il popolo non festeggia come ai tempi di Goethe, e non mostra nemmeno l’umile gratitudine della ragazza di Latina. Sebbene anneghi nella moneta, il popolo è in tumulto e se la prende non solo con i principi, ma con i tesorieri. I banchieri centrali, semidei ai quali fino a un anno fa venivano rivolti sacri voti, stanno rotolando fragorosamente giù dall’Olimpo. Perché? Che cosa è successo in così breve tempo?

Sotto attacco concentrico è finito il Federal reserve system, che negli Stati Uniti equivale alla Banca centrale. Nel 2003 più di un americano su due aveva fiducia nella Fed, oggi siamo a uno su tre. Gli indignati di Occupy Wall Street adesso hanno spostato i loro strali e gridano “Fed up”, con felice gioco di parole che in sostanza vuol dire ci siamo rotti della Federal reserve. Il Wall Street Journal ha raccolto i pareri di chi accusa la Banca centrale di aver favorito, con i suoi errori, l’ondata populista aprendo le porte a Donald Trump. I pompieri che avevano spento la crisi si sono trasformati in incendiari?

Janet Yellen, la presidente della Fed, non sa che fare e si comporta come la sibilla cumana. “Le ragioni per un rialzo dei tassi si sono rafforzate”, ha detto intervenendo all’annuale raduno estivo di banchieri centrali organizzato a Jackson Hole tra le montagne del Wyoming. Non ha specificato, però, se ci sarà un aumento da questi livelli “eccezionalmente bassi”, né quando. L’economia americana continua a crescere da sette anni, ma sta rallentando, anche se non s’arresta la creazione di posti di lavoro che ha portato la disoccupazione sotto il 5 per cento. Dunque, logica vorrebbe che, per non ostacolare la dinamica del prodotto lordo, il costo del denaro resti piatto. Tuttavia le pressioni si stanno facendo forti soprattutto da parte delle banche che rimpiangono i bei tempi in cui mettevano a segno lauti guadagni caricando interessi elevati sui debitori e giocando sulla forchetta tra tassi attivi e passivi. Inoltre, a differenza dall’Europa, negli Stati Uniti i prezzi continuano a salire (attorno all’1,4 per cento mentre nell’area euro sono a più 0,3), anche se sono sottoposti alla pressione al ribasso che viene dalle materie prime e dai prodotti asiatici, perché la domanda interna per consumi e investimenti fa da contrappeso. I segnali contraddittori dall’economia reale, dunque, si sommano ai messaggi ambigui della professoressa Yellen. 

Larry Summers (al quale, dopo aver fatto il ministro del Tesoro nella seconda presidenza di Bill Clinton, non dispiacerebbe diventare banchiere centrale se vincesse Hillary, visto che l’anno prossimo scade il mandato di Janet Yellen) ha dato fiato alle trombe: “La Federal reserve si fa guidare da modelli vecchi e convenzionali. In primo luogo, le attese sui prezzi stanno scendendo e non salendo; in secondo luogo dopo anni che si è proclamato un obiettivo inflazionistico del 2 per cento senza raggiungerlo, sarebbe ora di alzare il tetto; inoltre la Yellen crede che rialzare adesso i tassi le darà più spazio per abbassarli quando si presenterà il rischio di una prossima recessione, ma non conosco nessun modello che dimostri come la domanda potrà essere più forte con un costo del denaro che oggi sale e domani scende”.

Tutti temi discussi a lungo anche a Jackson Hole. In molti ormai chiedono di portare l’obiettivo dell’inflazione oltre il 2 per cento. Ha cominciato il Fondo monetario con un lavoro dell’ufficio studi guidato da Olivier Blanchard e adesso si è espresso a favore anche John Williams, presidente della Fed di San Francisco. Ma la Yellen ha gelato gli entusiasmi. Quanto alle armi per contrastare una prossima recessione (che negli Stati Uniti non è in vista) sembra che la enigmatica professoressa preferisca mettere in campo l’acquisto diretto di titoli sul mercato, cioè una nuova versione del quantitative easing che Mario Draghi ha esportato in Europa tra gli strepiti dei tedeschi.

Anche il capo della Banca centrale europea oggi è più solo. La Yellen non lo ha seguito sulla strada dei tassi d’interesse negativi. Quanto agli economisti, negli Stati Uniti non sono convinti della efficacia di questa misura monetaria estrema, mentre ne vedono chiaramente i riflessi negativi sui risparmi, argomento diventato sempre più forte in Germania dove gli stati maggiori delle grandi banche hanno chiesto che la Bce riporti il costo del denaro oltre il livello zero. Proprio Draghi, che ha voluto introdurre un po’ d’America nella politica monetaria della vecchia Europa dominata dall’ortodossia della scuola austro-germanica, viene mollato dagli stessi americani, timorosi di inoltrarsi nella terra incognita che lui, invece, percorre senza tentennamenti; anche se, purtroppo, senza grandi risultati in termini di crescita e di inflazione.

Le critiche a Draghi non vengono solo dal coté conservatore. Contro di lui è schierato anche Joseph Stiglitz, economista di grido e di grida, che ha dato importanti contributi nello studio dei mercati (le informazioni asimmetriche), prima di passare dalla micro alla macroeconomia e da qui alla politica (consigliere di Clinton alla Casa Bianca dal 1995 al 1997, poi vicepresidente e capo economista della Banca Mondiale). Il premio Nobel (ottenuto nel 2001 grazie ai suoi studi giovanili) gli ha rilasciato il passaporto di tuttologo: ormai consiglia gli italiani sul referendum costituzionale e gli europei sulla moneta unica, anzi sulle monete, perché la proposta contenuta nel suo libro “L’euro e la sua minaccia al futuro dell’Europa”, è che di euro ce ne vogliono addirittura due, uno di serie A e uno di serie B (inutile indovinare dove starebbe l’Italia). Il guru quattro stagioni in questi anni si è distinto nel polemizzare con Draghi a ogni pie’ sospinto. Nel 2012 ha giudicato “un trucco, un inutile espediente retorico” la famosa dichiarazione a favore dell’euro (whatever it takes). Lo ha attaccato sulla riforma del welfare state (per Stiglitz è un falso problema) e su una politica fiscale rigorosa per accompagnare e sostenere la politica monetaria espansiva (Stiglitz vuole più spesa pubblica anche in deficit). La sua ostilità è in parte politica e in buona parte personale.

 

Si deve sapere, infatti, che nutre un rancore implacable nei confronti di Stanley Fischer, grande economista, oggi numero due alla Fed. Il libro che rese popolare Stiglitz, “La globalizzazione e i suoi nemici”, aveva in realtà un vero, unico nemico: Fischer, che sedeva al vertice del Fondo monetario internazionale quando Stiglitz era capo economista alla Banca mondiale. E guarda caso lo stesso Fischer è grande amico e mentore di Draghi fin dagli anni del Massachusetts Institute of Technology. Un rapporto durato nel tempo e cementato quando hanno cominciato a fare lo stesso mestiere sia pure in paesi diversi (Fischer è stato anche governatore della Banca d’Israele) scambiandosi esperienze e consigli.

Anche se non sa come in pratica si governa la moneta, Stiglitz influenza giornalisti e opinionisti di sinistra (in particolare in Italia) e questo introduce nuove spine dolorose nel fianco di Draghi che sta subendo la sorte degli altri suoi colleghi: incensato per aver salvato l’euro, portato sugli altari per aver tutelato i nostri risparmi già fiaccati dalla crisi, è sceso mese dopo mese, gradino dopo gradino. In questi anni è stato abilissimo nel gestire la Bce con l’opposizione pressoché continua della Bundesbank (opposizione talvolta costruttiva, talvolta puramente formale, ma spesso anche aspra negli argomenti se non nei toni del duro, ma sempre cortese Jens Weidmann). E ha goduto a lungo dell’appoggio di Angela Merkel, ma nulla è più scontato perché la Germania è già entrata nel suo anno elettorale. In gioco non c’è solo la politica monetaria, ma la politica tout court: adesso la posta riguarda interessi di fondo che determinano gli equilibri del potere.

Prendiamo la crisi della Deutsche Bank. A ferragosto un tweet fasullo (forse frutto di hackeraggio) falsamente firmato dall’agenzia Reuters ha diffuso la voce che la banca stesse per chiedere un prestito straordinario alla Bce per far fronte alle sue pressanti esigenze finanziarie. Pensate, se fosse vero, quale responsabilità cadrebbe sulle spalle di Draghi: salvare la Deutsche Bank? E perché non le altre banche? Perché non quelle italiane? E qui arriviamo dritti come fusi all’altro fronte dello scontento popolare che in Italia è montato come la panna fino a trasformarsi in una montagna di ghiaccio che separa l’opinione pubblica confusa e smarrita, i politici in cerca di facili consensi, la tecnocrazia che un tempo aveva fornito le migliori “riserve” alla repubblica: la Banca d’Italia.

 

Il crac delle piccole banche del Centro Italia, la riforma delle popolari, un tourbillon di nuove aggregazioni, la crisi irrisolta del Monte dei Paschi, la caduta dei corsi azionari del colosso Unicredit: un anno di cambiamenti e di tormenti, mentre gli effetti della lunga recessione si fanno sentire tutti insieme. La miscela si è accumulata nel tempo, però non c’è dubbio che è esplosa quando l’Unione europea ha premuto il grilletto del bail-in, il meccanismo che fa pagare anche i piccoli risparmiatori nel caso di crisi bancaria. E’ in vigore dall’inizio dell’anno e Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia, ha chiesto che venga applicato in modo cauto e flessibile, tenendo conto della situazione italiana. Ma perché il governo Renzi lo ha approvato senza fiatare, senza coinvolgere il Parlamento e l’opinione pubblica? Perché non ha posto il veto se davvero colpiva gli interessi nazionali? E perché la Banca d’Italia non ha puntato i piedi? Domande che non vengono solo dall’opposizione e dal Movimento 5 Stelle, anche se Beppe Grillo spara a pallettoni contro Via Nazionale e contro Draghi, suo bersaglio da lungo tempo, accusato tra l'altro di non aver vigilato quando era governatore della Banca d’Italia e il Montepaschi acquistava l’Antonveneta strapagandola, inventandosi quei trucchi finanziari che l’hanno portato sull’orlo del collasso.

I banchieri centrali, dunque, si sentono soli. Tutti, nessuno escluso, nemmeno Mark Carney che, alla guida della Banca d’Inghilterra, sta ammortizzando l’impatto della Brexit. Hanno dovuto gestire una crisi la cui portata non ha eguali dagli anni Trenta del Novecento e gli uomini che hanno affrontato la Grande depressione non ci sono più. Negli Stati Uniti è stato impiegato un economista che l’ha studiata a fondo e meglio di altri, come Ben Bernanke. Alla guida della Fed ha messo in pratica quello che aveva insegnato ai suoi studenti: cioè che le crisi vengono accelerate dalla struttura del sistema bancario e finanziario e dal suo stato di salute, quindi bisogna salvare e riformare innazitutto le banche. Ma anche Big Ben ha scoperto che i libri non erano sufficienti e, con tutta la sua dottrina, aveva bisogno della politica, del governo, del presidente, del Parlamento. Ciò vuol dire mettere in discussione l’indipendenza della Banca centrale, aprire la torre d’avorio e sottoporre anche i migliori servitori dello stato alla merce’ di una opinone pubblica intossicata?

Leggendo le Considerazioni finali all’assemblea della Banca d’Italia nel 1978, Paolo Baffi, già sotto tiro della magistratura politicamente manovrata, spiegò che “nelle condizioni del nostro tempo una regola monetaria non può essere il sostituto o lo strumento di una disciplina nelle decisioni e nei comportamenti di tutta la società: quando ha successo essa è stata guida e suggello a scelte maturate con la ragione e l’esperienza”. Insomma, si tratta di convincere governi, sindacati, imprenditori, banchieri, tutti i soggetti dell’economia. Il governatore ricordava anche che “le azioni delle banche centrali sono uscite dal silenzio forse per non più ritornarvi: se quel silenzio è stato in passato percepito come garanzia di indipendenza, oggi l’indipendenza si realizza nel rendere conto esplicito della propria azione”. Baffi la chiamava “la battaglia della persuasione” e non intendeva lasciarla ai politici e ai giornalisti, ma voleva condurla in prima persona. Non glielo hanno consentito. Ma i suoi colleghi e successori rischiano di perdere quella battaglia senza averla combattuta.

Categoria Ecomia

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