Sui contratti, fate presto!
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I contratti aziendali sono di sinistra: promuovono la produttività e scardinano una diseguaglianza di fatto che blocca il paese. Non solo sindacati: c’è un passo fondamentale che la Confindustria deve fare
di Andrea Garnero | 09 Giugno 2016 ore 06:15 Foglio
E se spostare il centro della contrattazione collettiva a livello aziendale fosse una cosa di sinistra? E’ una provocazione che ha lanciato qualche mese fa Telos, la versione francese de lavoce.info, ma è un tema che si pone anche in Italia. Da anni aspettiamo un’autoriforma delle parti sociali ma o non arrivano a un accordo o quando arrivano i risultati concreti sono scarsi. Il governo a più riprese ha fatto sapere che sta perdendo la pazienza e che in assenza di una proposta della Triplice e di Confindustria si muoverà autonomamente. E’ effettivamente il pilastro mancante alla riforma del mercato del lavoro. Il più delicato. La riforma dell’articolo 18 è passata senza sciopero ferire. Una riforma della contrattazione collettiva probabilmente non passerebbe così liscia perché tocca la missione e l’esistenza stessa delle parti sociali. Il governo ha “promesso” all’Unione europea una riforma nel 2016 con l’obiettivo di “rendere esigibili ed efficaci i contratti aziendali e di garantire la pace sindacale in costanza di contratto”. E soprattutto che “i contratti aziendali potranno altresì prevalere su quelli nazionali in materie legate all’organizzazione del lavoro e della produzione”. E infine, nuove norme sulla rappresentanza per regolare chi ha diritto a sedersi al tavolo e ridurre il numero di parti sociali a quelle più rappresentative. Norme positive, ma che rischiano di avere un impatto marginale rispetto all’enormità delle divergenze di produttività tra territori e imprese se i salari saranno sempre definiti a livello centrale senza possibilità di deroga.
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Ha fatto recentemente notizia lo studio di Ichino, Boeri e Moretti presentato al Festival dell’economia di Trento che mostra come a fronte di un’uguaglianza nominale dei salari, corrisponda una diseguaglianza notevole di salari reali che blocca il paese in un equilibrio al ribasso: al nord piena occupazione o quasi ma salari reali bassi (e quindi poco attrattivi per molti laureati), al sud alta disoccupazione ma anche salari reali elevati dato il minore costo della vita. Inoltre, a costo del lavoro uguale e, per alcune imprese, costi di trasporto e sicurezza più elevati non conviene investire al sud. L’uguaglianza nominale, poi, è spesso solo formale: il numero di persone pagate meno dei minimi tabellari al sud tocca, non sorprendentemente, picchi molto elevati (oltre il 15 per cento secondo alcune mie stime recenti). Infine, se i contratti nazionali valgono per tutti, quindi anche per i lavoratori che non fanno parte di un sindacato, qual è l’incentivo a pagare una tessera? Scarso, se non l’adesione di principio. E infatti non solo il numero di iscritti scende venendo meno la forza dell’appartenenza “ideologica” ma anche la composizione si sposta sempre di più verso i pensionati. Infine, un contratto nazionale rappresenta spesso gli interessi di grandi imprese, magari parastatali, e non di quelle piccole o appena create e può diventare uno strumento anticompetitivo per tenere fuori dal mercato imprese più piccole che non possono pagare gli stessi salari.
Una riforma della contrattazione collettiva quindi è di sinistra perché farebbe tornare il sindacato nei luoghi di lavoro, darebbe al sindacalista d’impresa l’arma più importante: la negoziazione del salario. Sarebbe uno strumento per puntare a un’uguaglianza reale e non solo nominale tra le aree del paese. Favorirebbe le nuove imprese, più dinamiche e maggiormente creatrici di impiego. Aiuterebbe a coprire meglio le nuove forme di lavoro stabilendo regole a livello aziendale, invece di inseguire difficili standard nazionali in termini di equo compenso o quote di lavoro atipico massimale. E infine, con una presenza sindacale a livello aziendale rafforzata, aumenterebbe il livello di rispetto degli accordi. A che serve negoziare un buon salario a Roma se a Cuneo o Cosenza un imprenditore, giocando con le ore di lavoro, gli inquadramenti e un po’ di nero, fa comunque quel che vuole? Ovviamente un cambiamento del genere non si fa in un giorno né per decreto. Non basterà una riforma a cambiare il modo di negoziare i salari e l’organizzazione del lavoro. Servirà tempo ai sindacati per tornare nelle imprese, formare i propri quadri a fare contrattazione, ritrovare iscritti e forza negoziale. Servirà tempo anche alla maggior parte degli imprenditori, poco abituati a negoziazioni aziendali serie. E quindi bisogna andare per gradi: primo, aprire la possibilità di derogare secondo regole precise e condivise, continuare a incentivare la contrattazione decentrata, formare alle negoziazioni i sindacalisti di impresa e i piccoli-medi imprenditori e lasciare un contratto nazionale, o meglio locale, di riferimento solo per chi non vuole o non può firmare contratti aziendali.
E poi serve accordarsi su una condizione chiave: non si negozia due volte. Chi contratta a livello aziendale non contratta a livello nazionale o locale. La Confindustria è disponibile a questa clausola e quindi a misurare la propria rappresentatività rispetto alle imprese che non faranno contratti aziendali? Altrimenti non “vale”: solo le medie-grandi imprese, almeno all’inizio, riusciranno a contrattare a livello aziendale. Quindi il contratto nazionale, magari tenendo conto di specificità locali, deve valere per le piccole imprese. E devono essere i rappresentanti di quest’ultime a negoziarlo e non (come succede ora) i rappresentanti delle grandi imprese per cui salari più elevati sono un problema residuale. Per portare la negoziazione davvero a livello aziendale serve quindi un cambio di paradigma importante anche per Confindustria, non solo per i sindacati. Chi è disponibile a raccogliere questa sfida di equità ed efficienza?
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