Crescita: piccolo è brutto, ma a volte conviene

Ma a determinare la competitività è il confronto tra produttività e costi. E questi ultimi per le grandi aziende sono di gran lunga più alti.

Lavoce.info 31.05.16 Francesco Daveri

Perché la ripresa dell’economia italiana resta anemica? Si può accusare la piccola dimensione delle imprese, che ostacola gli investimenti e l’innovazione. Ma a determinare la competitività è il confronto tra produttività e costi. E questi ultimi per le grandi aziende sono di gran lunga più alti.

Alla ripresa manca la produttività, non il lavoro

La ripresa nell’economia italiana è anemica. Lo è rispetto all’Italia del passato: il +0,3 trimestrale dei cinque trimestri della ripresa 2015-16 è inferiore alla crescita media (+0,4) della ripresa 2009-11 e nettamente inferiore alle medie di quelle del 2005-07 e del 1999-2001 (rispettivamente, +0,6 e +0,8 per cento al trimestre).

Ma è anemica anche rispetto agli altri paesi europei nell’attuale congiuntura. Mentre l’Italia si ferma a +0,3, l’Eurozona (come la Germania) è vicina al +0,5 per cento, la Francia è allo 0,4 trimestrale, mentre la Spagna sfiora l’1 per cento.

La variabile che manca all’appello non è tanto il lavoro quanto la produttività. Il Pil 2015 è infatti salito dello 0,8 per cento rispetto al 2014, come gli occupati. Cioè la produttività del lavoro (il rapporto tra Pil e occupati) è rimasta al palo.

Tante micro imprese poco produttive che non investono …

Sul perché la produttività abbia smesso di crescere nell’economia italiana ci sono tante opinioni, e non da oggi.

Una che va per la maggiore è che “piccolo” non sia più bello come in passato. Una volta la crescita italiana era fatta da tante piccole imprese agglomerate in distretti che, grazie alla loro flessibilità, riuscivano a superare i problemi atavici della società italiana. Piccolo era bello. Oggi invece – si dice – le condizioni sono cambiate e l’eccessiva presenza di piccole imprese è (sarebbe) addirittura un freno – se non “il” freno – per le capacità di crescita dell’Italia.

Le sfide del mondo globale che richiede capacità di gestire processi complessi su più mercati con l’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione sarebbero troppo pesanti per le gracili spalle delle piccole imprese. Che, in più, non assumendo laureati e servendosi di modalità gestionali artigianali spesso associate a pratiche aziendali inefficienti, non sanno innovare.

I numeri Istat descrivono se e quanto il piccolo sia (diventato) brutto. I dati riguardano il 2013.

Tabella 1

La tabella 1 mostra che la produttività del cosiddetto business sector – il totale economia meno il settore pubblico, le utility e il settore immobiliare – cresce al crescere della dimensione di impresa. Una micro impresa ha un valore aggiunto per occupato di poco superiore a 25mila euro. Pari al 61 per cento della produttività di un’azienda media e pari al 38 per cento della produttività media di una grande impresa. C’è poco da dire: le micro imprese sono poco produttive. E ciò vale anche per le piccole.

Una delle ragioni per cui le micro imprese sono poco produttive è perché investono di meno. Le micro spendono in beni materiali, macchinari e attrezzature circa 4mila euro per occupato, la metà di quanto investe un’impresa media e meno di un quarto di una grande azienda. Un’impresa che investe meno, accumula meno capitale e avrà una minor produttività del lavoro.

Tabella 2

La micro produttività delle micro imprese è un problema soprattutto perché le micro imprese sono tante (3,5 milioni, il 95 per cento del totale) e occupano tante persone (il 47,1 per cento degli occupati del business sector italiano).

Sulla base dei dati riportati nel Rapporto di previsione di Prometeia (marzo 2016), in Germania la quota di occupati nelle micro imprese è solo il 26 per cento del totale: venti punti meno che in Italia.

Tabella 3

In sostanza, dunque, le micro imprese italiane sono poco produttive, ma anche molto rilevanti in termini di occupazione. L’implicazione – un po’ brutale – è che se le micro imprese diminuissero di numero diventando più grandi la produttività aggregata ne beneficerebbe anche solo per un puro effetto di composizione.

Il bello delle piccole. E il brutto delle grandi

A determinare la competitività e la crescita aziendale non è però la produttività, quanto il confronto tra produttività e costi, prima di tutto quelli del personale (salari più oneri sociali). E dal confronto di produttività e costi (e dei margini di profittabilità impliciti) si capisce meglio come fa a sopravvivere il piccolo. Le micro imprese hanno un costo del personale inferiore a 10mila euro per occupato, molto più basso di quello delle imprese nelle altre classi dimensionali. Forse impiegano persone in nero; di sicuro pagano salari più bassi e non sono soggette agli stessi oneri sociali delle imprese più grandi. Fatto sta che il rapporto tra valore aggiunto e costo del personale è nettamente più alto per le micro (2,6) che per le altre imprese (tra 1,4 e 1,5).

Tabella 4

Nel complesso, i dati Istat offrono nuova evidenza sull’andamento relativo di piccole e grandi imprese e sul loro impatto su produttività e crescita. Rimane vero che il piccolo è brutto perché mediamente poco produttivo.

Ma i dati mostrano che rimanere piccolo può essere conveniente. Le piccole imprese che non riescono a innovare sopravvivono (e magari prosperano) probabilmente da terzisti, pagando salari bassi e sfuggendo tasse e regole. Mentre le grandi imprese hanno costi di produzione elevati che ne riducono i margini di profitto e che le inducono a creare lavoro fuori dall’Italia.

Buon lavoro, ministro Calenda.

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