Non il chilometro zero, ma l’agricoltura hi-tech fa girare il mondo
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La tedesca Bayer punta Monsanto confermando il consolidamento delle culture geneticamente modificate. Meno fame per molti di più
di Renzo Rosati | 23 Maggio 2016 ore 20:22
Roma. L’offerta da 62 miliardi di dollari – 55 miliardi di euro, un quarto del pil della Grecia – della Bayer per l’americana Monsanto non è solo la più grande scalata in contanti della storia, cioè senza scambio di azioni, e la maggiore operazione finanziaria mai tentata dalle caute aziende tedesche (il precedente che più si avvicina risale al 1998 con la “fusione fra uguali” tra Daimler e Chrysler): essa segna quello che appare il culmine di un processo di consolidamento tra i big dell’agricoltura geneticamente modificata e dell’integrazione tra questi e i colossi mondiali della chimica e della farmaceutica. A dicembre c’era stata la fusione tutta americana tra Dow Chemical e DuPont, mentre a febbraio la svizzera Syngenta, che in 15 anni è divenuta il terzo produttore mondiale di prodotti chimici per l’agricoltura alle spalle proprio di Monsanto e DuPont, ha accettato l’offerta da 43 miliardi di dollari della ChemChina. Quest’ultimo è a sua volta il takeover record per le aziende cinesi, mentre Syngenta era sfuggita nel 2014 alle mire di Monsanto. Al di là delle criticità di questi mega-deal – John Colley, esperto della Warwick Business School di Coventry, Inghilterra, le individua nel sovrapprezzo del 50 per cento che i tedeschi pagherebbero agli azionisti Monsanto rispetto ai valori di qualche giorno fa, il che ieri ha fatto crollare le azioni Bayer; il Financial Times prevede un grande lavorìo per i vari Antitrust – è evidente che il business degli Ogm (organismi geneticamente modificati) si apre a nuove prospettive, grazie sia al massiccio afflusso di capitali delle tre maggiori aree mondiali, Usa, Europa e Cina, sia alla convergenza con la farmaceutica e la chimica evoluta.
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Infatti la Bayer nelle motivazioni della scalata a Monsanto, che comporta l’emissione di azioni e obbligazioni, indica “la transizione verso nuove aree di crescita tra le quali le life sciences e lo studio e la produzione di sementi più sofisticate”. Fatto che “ripianerà rapidamente esborso e indebitamento”.
A sua volta ChemChina, rilevando Syngenta, ha citato “la sfida industriale” (e la necessità politica di Pechino) di aumentare la produttività di terreni agricoli che sfamano 1,4 miliardi di persone. Non solo e non tanto economie di scala, dunque, ma l’innalzamento degli obiettivi di un settore definibile geostrategico: soddisfare i bisogni alimentari primari del mondo. Ovvero di 7,8 miliardi di persone destinati a sfiorare i 10 miliardi nel 2025. Eppure l’occidente, e specialmente l’Italia, ha una visione della faccenda che oscilla tra il complottismo millenarista – una grande Spectre che avvelena i popoli poveri con gli Ogm mentre ne saccheggia le biodiversità per inquinare noi: ieri le banane amazzoniche, ora l’olio di palma – e il salottismo chic.
Quello dell’agricoltura a chilometro zero, dell’“orto dietro casa”, dei giacimenti gastronomici. Per carità, le olive taggiasche e i pomodorini confit sono deliziosi, per non parlare del formaggio di fossa di Sogliano, tanto più se presi a caro prezzo al market bio o gustati in ristorante stellato, con conto da mutuo. Già però sulla mozzarella di bufala incombe il sospetto della Terra dei fuochi, per non dire delle cozze di Taranto. Peccato che i profeti del mangiare politicamente corretto dimentichino, per esempio, che sempre meno bambini e adulti del Terzo mondo muoiono di fame: secondo l’ultimo World Food Programme dell’Onu ben 70 paesi in via di sviluppo hanno raggiunto l’obiettivo di uscita dalla denutrizione nel 2015. Duecento milioni di persone negli ultimi vent’anni non soffrono più per mancanza di cibo, e questo grazie soprattutto all’agricoltura intensiva, ai fertilizzanti, agli antiparassitari, agli Ogm: tutti tabù delle nostre serate tra neovegani e Vandana Shiva, cui ha dovuto pagare pedaggio anche l’Expo di Milano.
Categoria Ambiente