I prof. in banca
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Né sceriffi né briganti. Per i vertici degli istituti di credito un mestiere da ripensare. Ed ecco Rossi e Penati a capo di Bpm e Atlante
Nicola Rossi. Docente alla Sapienza, formatosi alla Banca d’Italia, è stato anche consigliere a Palazzo Chigi con Massimo D’Alema presidente del Consiglio
di Stefano Cingolani | 16 Maggio 2016 ore 10:34 Foglio
Non ci sono più i banchieri di una volta. E vien da dire meglio così. Ma chi sono i nuovi che stanno entrando in plancia di comando? La Banca Popolare di Milano – fondata nel 1865, su modello tedesco, da Luigi Luzzatti, economista di gran valore e politico di primo piano (fu ministro del Tesoro e primo ministro) – ha nominato presidente Nicola Rossi, di origini pugliesi, docente alla Sapienza, formatosi alla Banca d’Italia, consigliere a Palazzo Chigi con Massimo D’Alema, una testa d’uovo “di sinistra e liberista”, direbbe Francesco Giavazzi, diventata sempre più liberista fino a presiedere l’Istituto Bruno Leoni. La fusione con il Banco Popolare entro l’anno darà vita al terzo gruppo bancario italiano, quindi siamo nell’empireo nazionale. L’operazione non è facile e in Borsa continuano a picchiare duro sulle due promesse spose. Anche se Rossi ha le carte in regola per dare un indirizzo nuovo e un solido assetto a un istituto lacerato dai conflitti interni, con i sindacati che facevano il bello e cattivo tempo, tenendo sulla graticola rispettabili professori come Piero Giarda e finanzieri d’assalto come Andrea Bonomi (figlio di Carlo e nipote di Anna Bolchini, la signora dei dané degli anni Settanta).
La nuova stagione trova un altro protagonista in Alessandro Penati, professore di Scienze bancarie alla Cattolica, dottorato a Chicago, liberista senza caselle, brillante commentatore sui giornali, avversario intellettuale e politico di Mediobanca. Scriveva sul Corriere della Sera e una volta fece i conti dei quattrini sprecati da Mediobanca per salvare la Ferruzzi-Montedison. Penati non venne più pubblicato e finì alla Repubblica. Non soddisfatto dall’insegnamento e dalla pubblicistica, stanco di osservare il mercato da lontano, ci si è gettato a capofitto sporcandosi le mani, come si dice. Così, sponsorizzato dalla Fondazione Cariplo presieduta da Giuseppe Guzzetti ha messo su una sgr (società di gestione del risparmio) chiamata Quaestio (e non per caso). Attorno a questo nucleo, con i soldi di Unicredit, Intesa, Ubi e altre banche, compagnie di assicurazione come Generali e in più la Cassa depositi e prestiti, è stato edificato il fondo Atlante impropriamente definito salva-banche, che deve reggere sulle sue spalle gli aumenti di capitale richiesti dalla Banca centrale europea e i crediti deteriorati che impiombano il sistema creditizio. L’esordio non è stato dei più incoraggianti, perché la Borsa ha respinto la quotazione della Banca Popolare di Vicenza, così che Atlante ha dovuto sborsare un miliardo e mezzo di euro per sottoscrivere le azioni, diventando il vero proprietario. Lo stesso potrebbe accadere con l’aumento di capitale di Veneto Banca per un altro miliardo. Con il che la dotazione del fondo verrebbe dimezzata. Ma siamo solo all’inizio.
Atlante ha un modello internazionale che prende nome anch’esso dalla mitologia greca: si chiama Apollo, nasce negli Stati Uniti e si è dato come obiettivo di intervenire nelle banche in crisi, alleggerirle dei non performing loans (npl, acronimo ormai entrato anhe nel gergo finanziario italiano) e gestire la loro ristrutturazione. La differenza dagli altri fondi è proprio qui: Apollo e Atlante non fanno gli azionisti passivi, ma diventano banchieri, in modo nuovo, se vogliamo, senza panciotto, doppiopetto e sigarone Avana. Il fondo americano è entrato in Carige, la Cassa di Risparmio di Genova per sistemare i crediti marci, poi ha presentato una offerta per la intera banca, sfidando l’uomo d’affari Vittorio Malacalza (lo stesso che aveva conteso la Pirelli a Marco Tronchetti Provera), azionista di riferimento con il 17,6 per cento, che per il momento ha avuto la meglio.
Professori più manager, è il modello prevalente in questa stagione delle sofferenze bancarie. Così in Intesa Sanpaolo Gian Maria Gros-Pietro è stato eletto al posto di Giovanni Bazoli con Carlo Messina capo azienda. Giuseppe Tesauro, giurista già presidente della Corte costituzionale, è andato alla Carige. E via di questo passo. Fa eccezione Unicredit, ma per quanto ancora?
Gli scossoni al sistema bancario italiano sono indotti dalle circostanze, dalla pressione esterna (dei mercati, della Banca d’Italia, del governo persino) e dalla condotta non sempre specchiata dei precedenti amministratori, ma spesso anche dalla realistica ammissione che le cose cambiano più in fretta di quanto s’immagini. Ciò riguarda in particolare le banche popolari, trasformate in società per azioni con una delle più importanti decisioni sistemiche prese da un governo, forse addirittura la più rilevante dagli anni Novanta, quando le privatizzazioni innescate da Giuliano Amato hanno messo fine alla “foresta pietrificata”. Dopo un quarto di secolo, l’idea che le azioni si contano, e non si pesano soltanto, è ancora difficile da far passare. Il capitalismo relazionale non sta solo a Milano, nel triangolo tra Piazzetta Cuccia e i nuovi grattacieli di Unicredit e Intesa. Scende per li rami giù fino alla provincia profonda. Alla Banca dell’Etruria solo quattro clienti eccellenti hanno provocato un buco da cento milioni di euro, altri cento vengono dai prestiti concessi ai consiglieri. Alla Popolare di Vicenza Gianni Zonin usava la banca per espandere le sue vigne. E così via.
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La difesa dell’esistente s’ammanta di motivazioni ideali, di pregiudizi, di malumori, di un senso comune plebeo che ha trasformato i banchieri in bankster. Alla gogna contribuisce il lessico giudiziario. In Etruria c’era una cupola, sì, proprio come a Corleone, nelle Marche agiva un comitato d’affari, a Ferrara una cabina di regia. Raffaele Mattioli, il potente capo della Banca Commerciale Italiana, in una delle sue immaginifiche metafore collocava il banchiere ai crocicchi dell’economia, ma “non come un brigante bensì come un vigile che regola il traffico”, incanala il risparmio, favorisce le imprese che ritiene meritevoli di crescere. In questo senso, il mestiere non è molto cambiato nei secoli. Fin dal mondo romano si tratta di far incontrare debitori e creditori, come scrive Ulpiano nel suo trattato e l’argentarius doveva registrare nelle proprie scritture che era avvenuto il passaggio di mano della moneta. Nel Medioevo si diffonde il banchiere-mercante che trova la massima espressione in Italia e nelle Fiandre. A chi già allora lamentava (come avviene ancor oggi) che la finanza è slegata dall’economia reale, Berardino Davanzati, banchiere di Prato nel ’500, replicava che “crescendo il commercio, si trovò modo d’avere i suoi denari dove altri volesse portarvigli. Coloro che non hanno pratica usano dare i loro denari a un banco che li cambi per loro in fiera”. Fiere solo di nome “perché non vi vanno i popoli a comprare mercanzia, ma solamente 50 o 60 cambiatori, banchieri in particolare, con un quaderno di fogli a recapitare i cambi fatti in quasi tutta Europa”. Il problema fondamentale di far mercatura è l’esigenza di liquidità, allora come oggi, basti ricordare cosa accadde nel 2008 dopo il crollo della Lehman Brothers.
Il banchiere presta soldi non solo a chi produce e vende, ma ai re, agli eserciti, agli stati. I Rothschild nell’800 tenevano in mano i debiti pubblici delle potenze europee (compreso il neonato Regno d’Italia). La rivoluzione industriale che in Inghilterra utilizza i capitali della Compagnia delle Indie, in Germania e in Italia è finanziata dalle banche, le quali posseggono pacchetti azionari delle imprese più importanti soprattutto nell’industria pesante. Tra gli anni Venti e gli anni Trenta questo sistema collassa e il banchiere-industriale finisce sotto tutela della banca centrale e del governo. La figura dominante diventa, così, Il banchiere di stato, mentre in periferia si consolida il banchiere locale soprattutto grazie al radicamento diffuso dei partiti di massa, in Italia della Democrazia cristiana che controlla il mondo delle banche popolari, mentre comunisti e socialisti si fanno spazio con le loro cooperative.
Poi c’è il centauro, alias Enrico Cuccia. Una figura anomala corrispondente alle anomalie del capitalismo italiano, che guida una banca d’affari pubblica per tenere in vita il capitalismo privato. E ci sono i cavalli pazzi come Michele Sindona. La sua è una storia di guerre politiche, ben raccontata dalla biografia da poco uscita per Einaudi (Marco Magnani, “Sindona”) anche se con un taglio cronachistico e non strutturale (come ci saremmo aspettati da un economista della Banca d’Italia qual è l’autore). Il volume non chiarisce alcuni dilemmi di fondo: il “commercialista di Patti” era davvero il banchiere della mafia? In realtà all’inizio era l’uomo di fiducia della “migliore” borghesia milanese, quello che aiutava a occultare i capitali al fisco per esportarli all’estero: Franco Marinotti, il capo della Snia, Giorgio Valerio, il boss della Edison, Carlo Faina della Montecatini, Anna Bonomi, “madame sans-gêne sboccata come Raffaele Mattioli”, la banca inglese Hambros, quella americana Continental Illinois, tutti mesmerizzati dalla veloce parlantina e dall’abilità di Sindona. Lo stesso Cuccia ne era stato brevemente attratto per poi diventare il suo più implacabile nemico. Ma la mossa chiave di Sindona fu entrare nelle grazie dell’arcivescovo di Milano Giovan Battista Montini, poi papa Paolo VI, di famiglia bresciana legata per affinità elettive e personali a Giovanni Bazoli, il futuro banchiere cattolico, contraltare di Cuccia. Anche Sindona divenne lo strumento dello Ior e del Vaticano per realizzare quella che Giancarlo Galli, il maggiore conoscitore della “finanza bianca”, ha chiamato “la reconquista”, cioè una battaglia senza esclusione di colpi per contrastare le personalità laico-massoniche che dall’Unità in poi avevano egemonizzato la haute finance.
In questo implacabile duello per l’egemonia del capitalismo nostrano, la Banca d’Italia agisce non come arbitro, bensì come protagonista. Sindona nel 1971 tenta “il colpo d’ariete” contro alcuni fortini dei privati: Pesenti, la Centrale, la Banca Nazionale dell’Agricoltura e Bastogi, storico salotto della finanza del nord. Il governatore Guido Carli si oppone facendo da sponda a Mediobanca. Tre anni dopo l’impero Sindona, arrivato a controllare ben 125 società, crolla. Carli prima cerca di salvarlo con il Banco di Roma, poi davanti all’opposizione di Enrico Cuccia e Ugo La Malfa, lo molla. E’ un punto di svolta. Al quale farà seguito nel 1982 il crac del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi (cassaforte della curia milanese). Nel frattempo viene attaccata la Banca d’Italia dove il governatore Paolo Baffi e il direttore generale Mario Sarcinelli sono ingiustamente accusati nel 1979 da una magistratura (la procura di Roma in quel caso) che aveva fatto un patto con la politica simile, anche se opposto sul piano degli schieramenti, a quello delle “toghe rosse” dopo il collasso della Prima Repubblica. In quello stesso anno viene ucciso Giorgio Ambrosoli, liquidatore della banca sindoniana. La pistola è di un sicario, la mano di Sindona. Tra mafia, malavita, loggia massonica P2, il banchiere è davvero diventato un “brigante al crocicchio” con buona pace di Mattioli.
La privatizzazione del sistema creditizio pubblico, dunque, non avviene soltanto per la pressione della crisi (dal crollo della lira a Tangentopoli), ma per la necessità di ridisegnare il sistema. Se il banchiere che aveva dominato nel mezzo secolo precedente era dipendente dal governo, dalla Banca d’Italia e (sempre più) dai partiti, a chi risponde il banchiere riformato? C’è chi come Giovanni Bazoli risponde a Dio e alla propria coscienza. L’avvocato bresciano ha avuto ampi meriti e ha costruito un grande gruppo dalle ceneri dell’Ambrosiano, con l’aiuto di Giuseppe Guzzetti, testa fine democristiana. Entrambi hanno sempre fatto politica, non solo nel senso più alto e non solo da bordo campo. Bazoli ha annunciato il proprio commiato operativo (Guzzetti nonostante i suoi 83 anni resta a capo della Fondazione Cariplo e dell’Associazione casse di risparmio), ma non ha bisogno di una poltrona di pelle per comandare, gli basta uno strapuntino nel seminterrato, come sosteneva anche Cuccia. Lo dimostra il colpo di teatro al Corriere della Sera scegliendo Urbano Cairo quale cavaliere bianco sostenuto dai prestiti di Intesa. C’è un banchiere come Alessandro Profumo che vuole interpretare un ruolo nuovo, in parte anomalo in Italia, il banchiere di mercato, ma viene colpito dalle contraddizioni del mercato (soprattutto con la crisi del 2008) e dal neo-nazionalismo della Bundesbank che impedisce a Unicredit di prendere in prestito a tassi di mercato denaro liquido dalle casse di Hypovereinsbank, l’azienda creditizia di Monaco posseduta dalla banca milanese. Il percorso di Profumo s’incrocia con quello di Cesare Geronzi, banchiere di sistema al pari di Bazoli, ma che attraversa fasi diverse, prima uomo della Banca d’Italia che ad essa resta legato in particolare durante il governatorato di Antonio Fazio, poi sempre più autonomo, perseguendo una propria strategia.
Adesso le condizioni monetarie sono radicalmente cambiate. La crescita non riparte. Il mestiere va ripensato. La banca non sta in piedi con pochi capitali. Non sta in piedi nemmeno solo prestando denari. E’ diventata un supermercato finanziario, finché gli scaffali non si sono svuotati. Non è passata l’idea di separare di nuovo le diverse funzioni: credito a breve, credito a lungo termine, compravendita di titoli, prestiti. Tuttavia i governi, a cominciare da quello americano, hanno rialzato le paratie regolatorie, imponendo limiti operativi e patrimoniali. E il bail-in che tanti problemi sta creando al piccolo mondo antico, abituato a essere salvato dalla mano pubblica, può diventare un modo per ridurre l’azzardo morale.
Il banchiere di una volta, dunque, non funziona. L’argentarius romano rispondeva personalmente nei casi di dolo o di colpa grave. Oggi la tecnologia e la complessità del sistema finanziario, cambiano radicalmente il modo di esercitare la funzione creditizia. Mentre la Banca d’Italia non è più il dominus del sistema. I fondi Apollo o Atlante lavorano come idraulici che sbloccano tubature intasate, il loro obiettivo è rimettere in sesto le aziende e rafforzare la loro base patrimoniale, anche a costo di tenersi i denari invece di prestarli. Così viviamo nel paradosso che i forzieri sono pieni di moneta immobile. “Di fronte alla moltitudine degli operatori economici oggi la banca è come Mefistofele nella cantina di Auerbach – diceva invece Mattioli –: avanti ragazzi cosa volete bere, libera scelta per tutti”. Bella metafora, ma rispetto a quel mondo faustiano, è finito lo champagne, resta solo il vino della casa.
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