La bufala del «lavorare meno, lavorare tutti»
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La mancata relazione fra pensione anticipata e disoccupazione giovanile. E intanto il costo del lavoro in Italia aumenta più di Spagna e Regno Unito
di Gianni Balduzzi, Linkiesta 29.4.2016
Probabilmente pochi elementi sono così indicativi della congiuntura economica, ma anche umana, che stiamo vivendo, del dibattito sulla possibilità di anticipare la pensione per un certo numero di lavoratori over 60, in deroga alla riforma Fornero. Basta che periodicamente vi sia un accenno sull’argomento da parte di un ministro che gli altri temi economici scompaiono. Lavorare meno nel Paese con il minore tasso d’occupazione d’Europa (dopo la Grecia) sembra essere una priorità.
Certo, se ne è già parlato estensivamente, l’argomento usato un po’ a sorpresa anche da parte del presidente dell’INPS Boeri, in passato su altre posizione, è che un’uscita anticipata dal lavoro di un certo numero di sessantenni favorirebbe l’ingresso dei giovani.
E’ già stato fatto notare come non vi sia alcuna reale correlazione tra i due fatti, come nei luoghi in cui l’occupazione over 55 è alta, in Germania, Scandinavia, Regno Unito, ecc, risulti elevata anche l’occupazione giovanile, e viceversa laddove gli anziani non lavorano, non lo fanno neanche i giovani, per esempio nel Sud Italia.
Lavorare meno nel Paese con il minore tasso d’occupazione d’Europa (dopo la Grecia) sembra essere una priorità
In questo Paese tra i primi 3-4 demograficamente più vecchi al mondo non si parla allo stesso modo invece del tema principe, le condizioni che rendono possibile la creazione di veri nuovi posti di lavoro, non meramente sostitutivi, in particolare il loro costo per le aziende che più di tutte occupano lavoratori, quelle piccole e medie.
L’Italia risulta a metà classifica tra i Paesi che che impongono più tasse a un dipendente tipo a basso reddito e senza carichi familiari, ma le cose cambiano se si includono le imposte pagate dalle imprese, e quindi tutto il cuneo fiscale. A questo punto vengono superati anche Paesi come Slovenia, Danimarca, Norvegia, Paesi Bassi, che pure hanno una fiscalità più pesante sulla persona fisica, e arriviamo al sesto posto dopo Belgio, Ungheria, Germania, Austria, Francia.
Le cose peggiorano ulteriormente se consideriamo una persona con stipendio medio e coniuge a carico che non lavora, una eventualità certo non rara nel nostro Paese. Qui siamo al terzo posto, lo stesso occupato in caso di figli, dopo Belgio e Francia. In Italia il cuneo fiscale è 6 punti più alto che in Germania, 8 più che in Spagna, il 13% maggiore che nel Regno Unito.
Uno degli aspetti più preoccupanti è l’andamento nel tempo del cuneo fiscale. L’Italia è l’unico grande Paese in cui questo è aumentato. Circa 10 anni fa eravamo distanziati dalla Francia, cui ora contendiamo il primo posto, ed eravamo su livelli analoghi a quelli della Germania, che abbiamo poi staccato.
Il cuneo fiscale concorre a formare il costo del lavoro, che nel nostro Paese secondo gli ultimi dati Eurostat è decisamente superiore a quello di Paesi dal PIL simile come la Spagna e addirittura più alto di quello nel Regno Unito. Nel complesso comunque il rapporto tra reddito e costo del lavoro appare piuttosto lineare e razionale.
E’ piuttosto il confronto con i tassi di occupazione (qui tra i 20 e i 64 anni) che fa capire come l’Italia sia un “outlier”, come il lavoro abbia veramente un costo alto in proporzione al numero di lavoratori.
Certamente non si può affermare che sia solo l’alto costo del lavoro a determinare una bassa occupazione è vera anche la relazione causa-effetto contraria, ma è un punto decisamente degno di nota, assieme ad altri fattori. Tra questi fattori vi è un aspetto del Jobs Act di cui si è parlato poco, il costo di un licenziamento, che naturalmente non può essere separato dal costo del lavoro, e anzi in un un certo senso dovrebbe esserne una componente.
Con la nuova legge del lavoro si intendeva favorire le aziende eliminando lo “spettro” del reintegro del dipendente licenziato. Era un problema marginale ma simbolico, e includeva anche l’infinito iter di giudizio in tribunale.
Questo aspetto è stato modificato soprattutto dalla legge Fornero sul lavoro, ma è stato poi il Jobs Act a introdurre l’abolizione del famoso articolo 18 per i nuovi assunti, aggiungendo però delle modalità di tutela del lavoratore licenziato illegittimamente che includono costi tra i più alti d’Europa per le aziende, ovvero come recita la legge, due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, con un minimo di quattro ed entro un massimo di 24 mensilità.
Questo costo fa in parte capire la continua preferenza per i contratti a termine, soprattutto con il dimezzamento della decontribuzione, e si aggiunge ai precedenti, ponendo i giovani inoccupati italiani in una posizione di svantaggio oggettivo soprattutto considerando che più che altrove il tessuto produttivo è formato da piccole e medie aziende.
Il costo complessivo del lavoro è un ostacolo che appare da un lato molto più vero ed evidente di quello costituito dalla permanenza al lavoro dei più anziani, ma dall’altro più costoso e meno politicamente redditizio cercare di eliminare, gli ultra cinquantenni sono sempre di più, votano di più, i loro figli e nipoti sono totalmente solidali con loro, e ancora di più lo sono i politici, anche quelli trenteenni e quarantenni che stanno nei ministeri e a Palazzo Chigi, e per questo la politica cerca la via più facile, efficace o meno che sia.
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