Rifugiati, il filosofo Spaemann: “Non dobbiamo per forza convivere”
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"Cristiani e musulmani non sono uguali, i centri di accoglienza non possono essere una Onu in miniatura", dice l'erede di Gadamer
di Matteo Matzuzzi | 01 Febbraio 2016 ore 17:10 Foglio
Roma. Non sta scritto da nessuna parte che la chiesa debba attivarsi per ospitare, nello stesso posto, cristiani e musulmani. Anzi, “farebbe bene a ripensarci”. A dirlo, in un’intervista pubblicata in Germania dal Tagespost, è il filosofo Robert Spaemann, erede di Hans-Georg Gadamer a Heidelberg, quindi docente alla Ludwig-Maximilians-Universität di Monaco di Baviera nonché amico, compagno di studi e ricerche di Joseph Ratzinger. Spaemann cita san Paolo, che nella Lettera ai Galati (Gal 6, 10) scrive: “Operiamo il bene verso tutti, soprattutto verso i fratelli nella fede”. “In altre parole – osserva il filosofo – se non possiamo aiutare tutti, bisogna seguire un ordine di vicinanza e lontananza”. Partire, insomma, da ciò che accomuna: “Può essere la religione o possono essere le confraternite di studenti, persone con interessi comuni e visioni del mondo comuni. E’ quanto di più naturale ci sia al mondo. Ma perché si continua a rifiutare ciò e non se ne vuole sentire parlare?”, si domanda.
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D’altronde, “le notizie sui delitti commessi contro i cristiani non vengono riportate volentieri e le statistiche vengono nascoste”. La verità, dice, è che “si vuole utilizzare il problema dei rifugiati per annullare la rilevanza sociale della religione”. In sostanza, si vuole che questa sia “un affare privato e laddove sorgono contrasti, li si minimizza”. Quanto accaduto a Colonia con le violenze di Capodanno ne è l’esempio lampante, salvo poi dover fare i conti con le centinaia di denunce per violenze sessuali e rapine depositate nelle stazioni di polizia. Spaemann ha aderito alla petizione dell’Initiative CitizenGO lanciata dalla comunità assira di Stoccarda che ha chiesto di separare i musulmani dai cristiani, costretti a subire – scrive il Tagespost – “le vessazioni dei profughi islamici”. Questo desiderio, spiega il filosofo ottantottenne, “è più che comprensibile. In alcuni ricoveri i rifugiati cristiani si trovano a essere discriminati, proprio come accadeva nella patria da loro abbandonata. Si tratta spesso di condizioni terribili. In molti centri non possono nemmeno mettere carne di maiale in frigorifero, né mangiarla. Non possono sedersi allo stesso tavolo cui sono seduti i musulmani”.
“Non siamo una Onu in miniatura”
L’amministrazione del Baden-Württemberg, però, non pare pensarla così, anzi: “Il direttore dell’ente per l’assistenza sociale sostiene che l’accoglienza in luoghi separati sia la strada sbagliata da seguire. A suo modo di vedere, i centri sarebbero una sorta di Onu in piccolo. Si dice che le persone dovrebbero sin d’ora imparare a convivere. Ma sono stupidaggini. A casa nostra non abbiamo un quadro in miniatura delle Nazioni Unite, ma arrivano persone che si presentano come rifugiati, e spesso non è neppure vero. Un senso di umanità ci spinge ad accoglierli e a sistemarli con chi li accetta, ma questo capita raramente in modo volontario. Si cerca – aggiunge Spaemann – di ignorare la religione comune come fattore di vicinanza e di separare persone che convivono come fratelli. E’ una forma odiosa di tirannia”. Che la convinvenza non sia sempre facile, lo dimostra anche quanto accaduto in Francia, nel Nord-Pas-de-Calais-Picardie, dove nel campo di Grande-Synthe – stando alle testimonianze raccolte e rese note dalla stampa locale, di cui ha dato conto il Foglio del 29 gennaio – i cristiani sarebbero costantemente vittime di soprusi da parte dei profughi musulmani lì presenti. “E’ cinico – chiosa Spaemann – chiedere di ‘imparare a convivere’, quando i cristiani lo vorrebbero pure, ma i musulmani – che poi sono coloro che nei centri d’accoglienza provocano – non sono interessati”.
(ha collaborato Giovanni Boggero)
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