La grande illusione femminista
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“Sono isteriche sull’occidente, inventano complotti esotici ma restano in silenzio su Colonia e l’islam”. A colloquio con due paladine dei diritti rosa, l’americana Hoff Sommers e l’iraniana esule a Parigi, Chahla Chafiq.( La Pinotti difende l'islam "La Bibbia sottomette la donna")
di Giulio Meotti | 11 Gennaio 2016 ore 17:18
1-Roma. “Troppe femministe sono così assorbite nel loro melodramma fabbricato ad arte da non poter aiutare le donne a liberarsi da una vera oppressione e da non aver visto quanto succedeva a Colonia”. Quando nel 1994 Christina Hoff Sommers pubblicò il bestseller “Who stole feminism?” (sottotitolo “Come le donne hanno tradito le donne”), l’allora professoressa di Filosofia della Clark University aveva in mente lo stereotipo rosa alla Gloria Steinem, non certo l’afasia delle sue epigone su Colonia, lo stupro multikulti di Capodanno. “Se i predatori di Colonia fossero stati tifosi europei di calcio o membri di una fraternità studentesca americana, ci sarebbe stata una immediata e feroce levata di scudi femminista”, dice al Foglio Hoff Sommers, “la femminista che prende le difese degli uomini” come l’ha definita il Telegraph. “Ma poiché gli aggressori erano in gran parte musulmani, questo è entrato in collisione con l’allineamento al multiculturalismo più radicale”. Perché lo stupro di massa delle donne yazide da parte dell’Isis non genera stupore o condanna? “Perché le femministe in America e Europa si sono persuase di abitare loro stesse una ‘cultura dello stupro’ violenta e patriarcale. Quando nell’ultimo anno ho tenuto lezione a Yale, Ucla e Georgetown, ho trovato femministe passionatamente dedite alla causa di liberare se stesse da un ordine patriarcale. Citano una litania di statistiche di vittime nei loro ‘gender studies’ che mostrano quanto stanno male le donne nei paesi industrializzati. Gran parte di questi numeri sono falsi e nei college americani le donne sono le più libere, privilegiate e sicure del mondo. Quando lo dissi scatenai il panico”. Chi è fuggita da una di quelle gabbie è Chahla Chafiq, femminista iraniana esule a Parigi, collaboratrice del Monde, che nel 2006 firmò, assieme ad altre dodici personalità come Salman Rushdie, l’appello pubblicato dal settimanale Charlie Hebdo a favore della libertà di espressione. “Il progetto dell’islamismo è una sfida totalitaria”, racconta Chafiq al Foglio. “Ho avuto la triste possibilità di vivere questa realtà in Iran. Al tempo della rivoluzione contro la dittatura nel 1979, come molti rivoluzionari iraniani, non ero ancora consapevole di cosa significasse l’islamismo. Interpretavo il discorso khomeinista contro lo Scià come un grido di collera contro il colonialismo, l’imperialismo e il dispotismo. Lo zelo di Khomeini per difendere i ‘poveri musulmani’ sembrava un appello per l’uguaglianza. Questa illusione venne condivisa anche da un gran numero di non iraniani. Stiamo ancora pagando un caro prezzo”.
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Quando in Iran fu imposto il velo alle donne e Khomeini le “invitò” a dimostrare di “non essere bambole truccate, ma esseri umani degni di rispetto”, scorsero fiumi d’inchiostro di femministe europee e americane che storsero il naso sulle donne iraniane che, anziché manifestare contro il carovita, rivendicavano il diritto di indossare la gonna piuttosto che il lugubre chador scuro. “L’imposizione del velo da parte della Repubblica islamica dell’Iran cristallizza questa oppressione onnipresente e multiforme – continua Chahla Chafiq – Come donna, l’ho sperimentato nella profondità del mio essere. Dal momento che il mio esilio risale ai primi anni Ottanta come inevitabile conseguenza dell’arrivo degli islamisti al potere, ho smesso di scrivere e pensare a queste domande. In questo sforzo di analisi, ho scoperto la dimensione totalitaria dell’islamismo. Dal 2006, data di pubblicazione del ‘Manifesto dei dodici’, l’ascesa del terrorismo islamista e le sue conseguenze mortali per tutta l’umanità ci mostrano, se necessario ancora una volta, l’urgenza di questa consapevolezza. Oggi, firmerei nuovamente il testo senza cambiare una parola”.
Difficile spiegarsi come le femministe occidentali possano difendere il velo islamico. “Alcune dicono che le donne in occidente hanno il loro velo oppressivo, il trucco, la cosmesi”, dice Hoff Sommers al Foglio. “C’è anche l’idea che le donne occidentali siano state tirannizzate dallo ‘sguardo del maschio’. Il velo sarebbe allora una liberazione. Ma devi passare attraverso molte ore nei ‘gender studies’ per crederci davvero. Io faccio parte di un femminismo vecchio stile: se decidono di mettersi il velo, va bene, ma se diventa forzato, è una oppressione”. L’americana Judith Butler, icona femminista del campus di Berkeley, ha difeso il chador, dicendo che “un velo può significare la fede, può significare appartenenza a un gruppo, può significare, forse, la negoziazione di una donna tra spazio pubblico e privato”. E il 1° febbraio tante femministe celebreranno il “World Hijab Day”, la Giornata mondiale del velo.
“Il velo in nome di Allah nasconde la volontà di travolgere l’uguaglianza”, ci dice Chafiq. “Questo progetto va contro il rispetto dei diritti umani che deve essere alla base di qualsiasi progetto democratico. Nel discorso islamista, il velo dovrebbe proteggere le donne dallo sguardo concupiscente degli uomini e preservare la castità delle società. La realtà dei paesi che impongono la sharia dimostra il contrario. Il velo non impedisce lo sfruttamento del loro corpo o della prostituzione. Le conseguenze della imposizione del velo sono ovviamente negative per le donne, ma anche per gli uomini e la società in generale”.
A sentire le femministe, sembra che il nostro sia il peggiore dei mondi, quando è il contrario. “Dicono che una donna su tre viene abusata, una su quattro stuprata”, continua Hoff Sommers. “Numeri altamente gonfiati, ma insegnati nelle università, mentre gli scettici sono messi a tacere. E’ così che l’illusione sopravvive. All’inizio, queste femministe pensavano di essere l’avanguardia della rivoluzione morale e intellettuale. Speravano di raggiungere una comprensione liberante del sesso e del genere. Ma alla fine, non hanno ottenuto altro che la produzione di una pessima prosa e di teorie esotiche della cospirazione. Non sono mai d’accordo con Noam Chomsky, ma penso abbia ragione quando dice che i pensatori postmoderni hanno mistificato il mondo e impedito la liberazione”.
Chafiq: “Ho lasciato il mio paese, mentre il decennio nero della sanguinosa repressione di oppositori del regime era iniziato dopo l’avvento al potere degli islamisti. Le informazioni di esecuzioni sommarie mi hanno immerso in un vero e proprio incubo. Il mondo libero era rimasto quasi indifferente al decennio sanguinoso. Il massacro di Charlie Hebdo mi ha ripiombato nel buio dell’uccisione di dissidenti iraniani a cui avevo assistito. Ha rivelato la profonda natura fascista del progetto politico islamista per il quale si esclude l’Altro nel nome del divino. L’Europa ora vive le conseguenze mortali dell’islamismo nel proprio territorio, come l’Iran e altri paesi islamici, dall’Asia all’Africa. In Francia, lo sviluppo dell’islamismo ha trovato terreno fertile nell’incoscienza di attori politici e sociali. Un esempio è la lotta contro la ‘islamofobia’, che ha portato acqua al mulino degli islamisti”.
Dieci anni fa, Christina Hoff Sommers aprì la sua casa a una femminista islamica in fuga dall’Europa, Ayaan Hirsi Ali. Una apostata demonizzata dalle femministe mainstream sia nei Paesi Bassi che in America, dove le è stato impedito di parlare in alcune università. “Perché ha violato i sacri princìpi multiculturali e perché ha messo in dubbio il vittimismo femminista”, conclude parlando al Foglio Hoff Sommers. “Ayaan è un’eroina del femminismo che ha bisogno di essere protetta ovunque vada, per cui non so spiegarmi il disprezzo che la circonda. Credo sia dovuto al fatto che ha sconvolto la narrativa dominante che vede le donne, le minoranze e i non occidentali come le vittime, e i maschi bianchi e occidentali come gli oppressori universali”.
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