La Dichiarazione dei diritti di internet guarda avanti, ma storto
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l conflitto tra la natura, per dir così, libertaria della rete e la sua normalizzazione democratica colora tutta l’elaborazione della Commissione, ma ci sono alcune fragilità
di Massimiliano Trovato | 29 Luglio 2015 ore 20:09 Foglio
Vede la luce la Dichiarazione dei diritti in internet e il momento è solenne: lo insinuano gli estensori con la messe di maiuscole che si rinviene tra i commi della carta (Internet, la Rete, le Istituzioni Pubbliche); lo certificano i commentatori, con l’entusiasmo incontenibile per lo “storico” documento che l’Italia dona al mondo – ma il Brasile ci ha pensato prima, e ne ha fatto una legge.
Al di là della cortina d’enfasi, si riscontrano effettive ragioni di soddisfazione: per una volta, la politica ha saputo affrontare i temi dell’innovazione abbandonando le abituali posizioni di retroguardia e il consueto approccio meramente difensivo; e l’ha fatto all’insegna di un metodo di per sé commendevole, sollecitando la partecipazione al processo redazionale da parte di tutti i soggetti interessati. Ciò nonostante, sopravvivono alla lunga fase di consultazione pubblica e alla successiva scrematura tutti gli equivoci che hanno caratterizzato l’iniziativa sin dai suoi esordi: rispetto alla natura di internet, al senso complessivo di una sua costituzionalizzazione, alla commistione tra scelte di principio e orientamenti pratici. La Dichiarazione guarda in avanti, ma in una direzione sottile e un po’ sbilenca.
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Quanto al primo aspetto, la Commissione guidata da Stefano Rodotà pare sottoscrivere una concezione restrittiva di internet come spazio di cittadinanza, in cui riecheggia l’eco di quel benicomunismo telematico di cui il noto civilista è tra i più visibili sostenitori. Si tratta di una rappresentazione del tutto insoddisfacente della complessità della materia: sul piano politico, perché la rilevanza della rete attiene non tanto alla possibilità di una più efficace partecipazione democratica, quanto piuttosto, in modo ben più dirompente, al riconoscimento di più ampi spazi di autonomia individuale e organizzazione spontanea; su quello economico, perché, con l’eccezione di un paio d’incisi, essa ignora lo straordinario contributo produttivo e innovativo della rete – basti dire che la Dichiarazione tace sulle libertà economiche, che pure la Carta di Nizza annovera oggi tra i diritti fondamentali, mentre si sprecano i riferimenti ai presunti rischi derivanti da disparità economiche.
Il conflitto tra la natura, per dir così, libertaria della rete e la sua normalizzazione democratica colora tutta l’elaborazione della Commissione: capita, per esempio, che un caposaldo della tradizione costituzionalistica occidentale come la libertà di manifestazione del pensiero finisca annacquato in un articolo dedicato alla sicurezza della rete; mentre il diritto (positivo) di accesso a internet assurge a pietra angolare della carta, nonostante le diffuse riserve sull’opportunità di qualificare come diritto umano la disponibilità concreta di una specifica tecnologia – obiezione enunciata, tra gli altri, da un padre nobile di internet, Vint Cerf, poco elegantemente tirato in ballo da Rodotà nel corso della conferenza stampa di debutto della Dichiarazione.
Se già la parzialità dei punti di partenza mal si concilia con l’aspirazione costituzionale del documento, ulteriori difficoltà sorgono in merito a quelle disposizioni che si soffermano non già su principi fondamentali, ancorché opinabili, bensì su specifiche opzioni regolamentari, che certamente beneficerebbero di un vaglio più dettagliato: è il caso delle previsioni in materia di neutralità della rete o di tutela dei dati personali. Per inciso, tali approfondimenti normativi sono, in molti casi, già in corso, o sono superflui alla luce della tutela già approntata da una molteplicità di fonti: tanto che si è indotti a interrogarsi sull’utilità della Dichiarazione e sulla sua effettiva portata innovativa.
Detto che il suo valore giuridico è al momento nullo, la presidentessa Boldrini ha annunciato l’intenzione di promuovere una mozione che vincoli il governo a conformarsi ai principi della carta. La Commissione, però, è rimasta a metà del guado, producendo un documento che non vive all’altezza delle proprie ambizioni addirittura sovranazionali, ma non fornisce neppure al legislatore una mappa sufficientemente precisa e autorevole per guidarlo sul terreno insidioso della regolamentazione della rete. Considerati i nodi tuttora irrisolti, che la Dichiarazione resti confinata al piano politico e culturale, come sembra al momento prevedibile, non è forse un male.
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