Le gambe di Paolo Venturini, di corsa tra i ghiacci della Siberia
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Si può resistere per trentanove chilometri a meno 52 gradi. Ce l’ha fatta un sovrintendente della Polizia abituato a superare il limite dell’umano. Intervista sottozero
di Giovanni Battistuzzi 26 Gennaio 2019 www.ilfoglio.it
Il mondo alla fine del mondo è un pezzo di ghiaccio sul quale la vita continua a resistere nonostante tutto. Nonostante un freddo che viene difficile solo immaginare, nonostante una natura che più che matrigna è tiranna, nonostante esista un altrove ben più invitante. Non è il mondo alla fine del mondo prima immaginato e poi viaggiato da Marco Polo. Non quello narrato e amato da Luis Sepúlveda. Quello visto e poi corso da Paolo Venturini è la punta della Russia che guarda a oriente, quella Siberia un tempo triste di persone recluse, ora tempio di una matta idea diventata realtà: correre nel posto più freddo del mondo nel periodo più freddo dell’anno. Trentanove chilometri da percorrere, lo spazio che separa Tomtor da Oymyakon, Jacuzia. Trentanove chilometri che sono quasi una maratona per lunghezza, almeno un paio per durata. Perché tre ore, cinquanta minuti e dieci secondi sono un tempo eterno da correre quando le condizioni climatiche sono normali, figurarsi quando il termometro segna meno cinquantadue gradi, con punte a meno cinquantadue virgola sei. “Un anno e mezzo fa, il 19 luglio 2017, ho corso nel luogo dove sono state registrate le temperature più elevate, il Deserto di Lut (Iran sudorientale, nda), nel periodo di massimo caldo. Ho pensato che il cerchio andasse chiuso”, dice al Foglio il sovrintendente della Polizia di stato e atleta del Gruppo sportivo Fiamme oro.
Foto tratta dalla pagina Facebook di Paolo Venturini
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In Siberia ci finì uno scienziato di Venezia trapiantato a Trieste all’inizio del Novecento. Era salito sino a lassù con l’idea di testare un tessuto (fibre di cotone, lana e celluloide) che potesse proteggere il corpo umano dal freddo estremo. Doveva starci qualche mese, ci rimase diversi d’anni. Quando tornò a Mosca per prendere la diligenza che lo doveva portare prima a Vienna e poi in riva all’Adriatico, scoprì che era scoppiata la guerra e che in Russia non c’erano più gli zar. Venne imprigionato dai bolscevichi e solo dopo un lustro riuscì a tornare a casa sua, che nel frattempo non era più il porto dell’Impero austroungarico, ma soltanto un porto dell’Italia. I suoi esperimenti furono un fallimento, ma dalla Russia tornò con un nuovo sistema di distillazione che gli permise, vendendolo, di farsi una piccola fortuna.
In Siberia, Venturini, anche lui veneto, ma di Padova, c’è arrivato invece per capire sino a dove il suo fisico si può spingere. A fargli raggiungere queste lande è stata “la voglia di dimostrare che se una persona pianifica tutto per bene può spingersi anche oltre a quello che la scienza crede sia possibile. Ovviamente la mia volontà non è quella di smentire gli scienziati, quello che mi piace è smentire chi dice aprioristicamente che qualcosa è impossibile”.
Tre ore, cinquanta minuti e dieci secondi per raggiungere Oymyakon da Tomtor, Jacuzia. Il luogo più freddo al mondo
Estremo vuol dire “arrivare al limite del conosciuto e cercare di superarlo”. Lo ha fatto a piedi: “E’ la mia indole”
Il mondo alla fine del mondo di Paolo Venturini è un luogo senza distanze, dove “tutto è bianco a eccezione di qualche ramo che si ostina a non essere coperto dalla neve. Dove la tridimensionalità non esiste, o almeno gli occhi non la riescono a percepire. Dove non si vedono le asperità del terreno, la strada è dura come il marmo, ogni cosa è spolverata da una farina di ghiaccio che rende tutto ancor più difficoltoso di quello che è già e per questo bisogna essere concentrati sui dettagli, tentare di percepire l’impercettibile per evitare incidenti”.
Il mondo alla fine del mondo di Paolo Venturini è una dimensione dell’irreale, “qualcosa che sino a quando non ci sei dentro non puoi immaginare”. Un luogo dove “il silenzio è assoluto a tal punto che riesci a percepire tutto ciò che solitamente non senti: il fruscio del vento, quello del respiro, il crepitìo dei battiti cardiaci. Dove ti sorprendi all’udire un battito d’ali. Sembra impossibile che un animale possa vivere a quelle temperature. Eppure c’è”. Ci sono uomini e donne che si sono adattati a tutto ciò, “persone fiere di abitare in queste zone, che non se ne andrebbero mai da questa regione. Ho conosciuto una signora di novantasei anni che qui è nata e qui è rimasta per tutta la vita e che ancora esce di casa per andare al bagno, perché qui i bagni sono tutti all’esterno”.
Il mondo alla fine del mondo di Paolo Venturini è un luogo di resistenza: al freddo, ai problemi, alle distanze. Otto ore da Mosca, ma in aereo, giorni interi se si sceglie la macchina, pochi minuti se si usano i piedi. “Gli spostamenti all’esterno sono minimi in questo periodo dell’anno. Quando esci hai un tempo limitato di tolleranza. Perché puoi avere anche quattro paia di guanti a proteggerti le mani e quattro berretti a riscaldarti la testa, ma c’è un momento, e arriva sempre questo momento, che inizi a sentire troppo freddo: è l’aria ghiacciata che ti entra dalla bocca e ti congela dall’interno”. Uscire, anche per poco tempo, è impresa mai banale, “c’è bisogno di curare una serie di particolari a cui solitamente non diamo peso. Ogni volta è come prepararsi per fare un’immersione sino a quaranta metri, solo che invece di maschera, pinne e bombola c’hai strati e strati di vestiti”. Soprattutto quando la temperatura scende sotto i cinquanta gradi sotto lo zero, che “qui chiamano la linea della vita”. Perché “sino ai quarantanove la respirazione è ancora abbastanza agevole, sotto questa soglia invece quello che respiri è aria congelata, tra l’altro con un alto tasso d’umidità, e c’è il rischio concreto di danneggiare alveoli e retro della gola”.
Foto tratta dalla pagina Facebook di Paolo Venturini
In Siberia non esiste velocità e la mancanza di questa ha eliminato la fretta. Eppure “il movimento è la base di tutto, se esci di casa ti devi muovere, ma la gente sa che non è questo il momento per uscire, tantomeno per passeggiare in mezzo alla natura”. Figurarsi se è tempo per correre. “Il vantaggio della corsa è che se ti muovi produci calore, quindi il freddo lo sopporti meglio. Lo svantaggio è che questo calore diventa sudore che a un certo punto si ghiaccia e quando si ghiacciano gli strati vicini al corpo la tua temperatura crolla”.
Disse all’Equipe Patrick de Gayardon che “l'estremo è ricerca. Del limite da superare, della meta più lontana che un uomo può proporsi di raggiungere. E, una volta che l'ha raggiunta, l'estremo diventa un ulteriore limite, una meta ancor più lontana”. Il francese ha cercato di superarlo in cielo, nell’aria, in quell’elemento che considerava casa, “l’unico posto al mondo in cui mi sento a mio agio. C’hanno fritto il cervello con l’idea di libertà. Ci hanno insegnato che questa si può trovare in questo o in quel modo, con questo o quel sistema di vita. L’unica libertà che ho scovato è quella di librarmi in volo. Lo so che non potrò mai volare. Non mi importa, avvicinarmi mi basta, avvicinarmi all’estremo mi fa sognare e questo è ciò che in fondo conta nella vita”.
Venturini non ambisce al cielo, gli basta la terra. Sulla terra tiene i piedi, li muove, insegue la sua ombra tentando di precederla. E nel farlo si spinge là dove si rischia di non tornare. Il limite estremo. Il suo è un estremo reale, senza edulcorazioni. Non è idea, è pratica. “Posso dire di essere arrivato vicino al punto di non ritorno”. L’ha trovato dolce: “Ti fa conoscere la vita, te la fa apprezzare di più”. Per lui il termine estremo vuol dire “arrivare al limite del conosciuto e cercare di superarlo. Sono sempre scettico quando si considerano estreme attività come il bungee jumping: fa tutto l’elastico. E’ molto più estremo correre i cento metri come lo faceva Usain Bolt. Lui sì ha oltrepassato il limite: quello dell’uomo più veloce del mondo”.
Quella di Venturini non è stata solo una corsa, è stato un viaggio: dentro il gelo, dentro la Siberia, dentro se stesso. “E’ la mia indole, fa parte della mia vita, della mia volontà di scoprire sino a dove posso spingermi”. Bontà d’intenti che è determinazione, capacità di soffrire, incapacità di mollare. D’altra parte “sono i sacrifici quelli che ti danno la forza di portare a termine quello che inizi, anche se questo è tosto, difficile, perché no: estremo